Peccato. Al mercato dei Parioli, falcidiato dalla pandemia, si sono rassegnati da tempo a non vedere più quel signore che, il sabato mattina, i giornali sottobraccio, faceva la fila dal verduraio dopo aver ordinato in macelleria il filetto per gli hamburger che affidava alla moglie Serena, seduta sull’auto (un’utilitaria) in seconda fila. Scene di una vita fa, quando Mario Draghi, prima di entrare nel gotha dei potenti (al numero 18 del mondo secondo la classifica Forbes del 2018), poteva concedersi un sabato da persona qualsiasi, come piace a lui, tutto sostanza, nessuna concessione allo sfoggio di lussi o privilegi.
Come del resto la signora Serena, da lui tirata in ballo quando, finito il mandato alla Banca centrale europea, i giornalisti cominciarono a fargli domande sulla disponibilità a entrare in politica. “Chiedete a mia moglie”, si è sempre limitato a rispondere. Fino alla chiamata di Sergio Mattarella, che forse gli ha garantito un parcheggio vicino al mercato.
Al di là delle battute, non c’è nulla di più difficile che fare il ritratto di questo banchiere cortese e discreto, ma dalla volontà di ferro. All’apparenza un uomo semplice, ma capace di venire a capo delle trame più complicate con una logica implacabile, più Cartesio che Machiavelli, con cui ha conquistato la fiducia di Angela Merkel e piegato i falchi della Bundesbank. Gli servirà ancora, per continuare a Palazzo Chigi la sua guerra contro populisti e sovranisti, da lui affrontati con successo quando era in ballo la sopravvivenza dell’euro. Gli servirà ancora, a 73 anni, anche quell’aria da bravo ragazzo dotato per il basket, “studioso ma non secchione”, che lo contraddistingueva al liceo classico Massimo, retto dai gesuiti. “Uno che non faceva la spia”, ricorda Giancarlo Magalli, all’epoca compagno di classe, come Luca di Montezemolo.
La perdita dei genitori, la tesi anti-moneta unica
Mario Draghi è cresciuto in fretta, all’ombra di una, anzi di due tragedie. Tra i 15 e i 16 anni perde prima il padre Carlo, padovano, dipendente di Banca d’Italia e poi di Bnl, poi la mamma, Giulia Mancini, farmacista. A occuparsi di Mario e dei suoi fratelli (Andreina, oggi storica dell’arte, e Marcello, imprenditore) sarà una sorella del padre.
La carriera scolastica del futuro presidente della Bce (nonché della Banca d’Italia) lo vede alla Sapienza, dove si laurea sotto la guida di un grande maestro, Federico Caffè. La tesi di laurea? “Integrazione economica e tassi di cambio”, in cui si schiera contro uno dei primi progetti di integrazione della moneta unica, quello proposto dal lussemburghese Pierre Werner. Mai dire mai, insomma. Nel 1971 vola, su segnalazione di Franco Modigliani, al Mit di Boston, dove avrà per compagno di studi il futuro presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, e prenderà il master sotto la guida di Stanley Fischer, uno dei banchieri centrali più influenti del decennio scorso, numero uno della Banca centrale di Israele e poi testa d’uovo della Fed.
Il numero uno dei “Ciampi boys”
Il giovane Mario è a questo punto maturo per rientrare in Italia, direttamente ai piani alti della politica economica. Nel 1983 diventa consigliere di Giovanni Goria, ministro del Tesoro del governo Craxi. Nel 1991 approda alla direzione generale del Tesoro su suggerimento di Carlo Azeglio Ciampi, allora governatore della Banca d’Italia. Da allora Draghi è il più brillante tra i Ciampi boys, il civil servant cui affidare le missioni impossibili.
È lui, a partire dagli anni ’90, l’artefice delle privatizzazioni italiane, inaugurate dalla crociera del Britannia, il panfilo della regina Elisabetta II affittato per presentare alla comunità finanziaria i gioielli di Stato, a partire da Sip e Stet e dalle banche Iri. Una svendita? In realtà lo Stato italiano, in quel momento a un passo dalla bancarotta, riuscì ad avviare il rientro dalla spirale del debito pubblico, sceso dal 125 al 115% grazie a una terapia d’urto cui contribuì non poco la disciplina di ferro imposta dal direttore generale del Tesoro. Non è l’unico capitolo controverso della biografia del banchiere che, nel 2002, approda in Goldman Sachs, proprio negli anni in cui la banca d’affari curerà il collocamento di derivati della Grecia che ricadranno come un boomerang sulla finanza di Atene ai tempi della crisi dell’euro. In realtà, il banchiere non ebbe un ruolo attivo nella vicenda.
Dalla Banca d’Italia alla Bce
Non meno movimentato il rientro a Roma. Nel dicembre del 2005 Mario Draghi succede in Banca d’Italia ad Antonio Fazio, costretto alle dimissioni dopo la vicenda di bancopoli, nota come “l’estate dei furbetti”. Giunto alla testa dell’istituto, Draghi mette mano all’annoso problema dei rapporti tra banche e industria, ma rinuncia al ruolo di “capostazione dei movimenti del credito”.
I suoi rapporti con la politica non saranno lineari. A partire dalle polemiche con Giulio Tremonti, allora responsabile del Tesoro. Ma quando si tratterà di scegliere un successore a Jean-Claude Trichet in Bce, posto che l’Italia può rivendicare, Silvio Berlusconi non potrà che spendere la carta Draghi, che lo ripaga firmando a quattro mani con Trichet una sorta di ultimatum a una gestione finanziaria che contribuisce a riportare l’Italia sotto tiro, proprio come ai tempi del Britannia. E, in parallelo, mette a rischio la sopravvivenza stessa dell’euro.
“Whatever it takes”
È in questo clima che, il 26 luglio del 2012, Mario Draghi pronuncia il celebre “whatever it takes”. La Bce, sotto la guida di Draghi, promette ai mercati di fare tutto quel che è necessario per garantire la moneta unica. Vale a dire, schierare la banca centrale a tutela dell’euro, anche a costo di sfidare il pensiero dominante in Germania e nel Nord Europa. Ed è qui che il banchiere romano compie il miracolo: nonostante i furibondi attacchi dell’establishment (la Bild gli darà per anni del “truffatore”), Draghi, sempre lucido e combattivo, mai arrendevole, riesce a costruire nell’Eurozona un fronte più disponibile nei confronti del Sud, nonostante da Roma gli arrivino ben pochi sostegni.
A poco a poco, complice il peggioramento delle condizioni finanziarie dei vari Paesi, Draghi riesce a costruire un fronte a favore di una politica finanziaria morbida, che si basa sul quantitative easing, e a mettere all’angolo il nemico Jens Weidmann. Missione compiuta, che prosegue con Christine Lagarde.
Di qui la sfida della politica, arte in cui il banchiere che ha studiato dai gesuiti ha già dimostrato di saper eccellere, come a suo tempo Ciampi. Draghi, sottotraccia, approda a Palazzo Chigi forte di agganci con la politica più solidi di quanti non sembri. A partire da Giancarlo Giorgetti, l’eminenza grigia della Lega. Si vedrà presto se questa ed altre liaisons consentiranno una convivenza utile in un Paese in cui sembra impossibile individuare un minimo comune denominatore. Ma una cosa è certa: o ci riesce lui, o finiremo vittime di noi stessi, con tanti grilli in testa.
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