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La Nasa ha un problema con il guardaroba: affidata la realizzazione delle tute spaziali a un consorzio privato

Le tute per l’attività extraveicolare sono diventate un tasto dolente per la Nasa che, dopo il recente malfunzionamento causato da una perdita d’acqua in quella indossata dall’astronauta europeo Matthias Maurer, ha deciso di limitare al massimo le uscite dalla Stazione spaziale internazionale, perché le “Extravehicular Mobility Units” (o Emu) mostrano i loro anni.

Le quattro tute funzionanti che si trovano sulla Iss rappresentano quanto è rimasto di un guardaroba di diciotto, costruite nel 1974 in vista delle attività da svolgere nella baia di carico dello Space Shuttle. Per la precisione, ne esistono altre sette variamente danneggiate, che possono essere usate per parti di ricambio, tuttavia, dopo quasi mezzo secolo, è tempo di rinnovare l’armadio degli astronauti.

Una questione di sicurezza

Non è una questione di stile: un indumento che costa un centinaio di milioni di dollari (senza contare quanto speso per la ricerca e sviluppo dei materiali e delle tecnologie necessarie) non subisce la moda. Piuttosto si tratta di sicurezza. Una tuta per attività all’esterno, sia in orbita sia sulla Luna e, più in là nel futuro, su Marte o su qualche asteroide, è un’astronave portatile, capace di mantenere l’essere umano che la indossi in condizioni di pressione e temperatura accettabili, oltre a fornire l’ossigeno da respirare, l’acqua da bere, l’illuminazione per lavorare al buio, i contatti radio con il resto dell’equipaggio.

Tutti compiti importantissimi e necessari per permettere agli space walkers di sopravvivere nel vuoto cosmico, dove al Sole si bolle e all’ombra di congela. I circuiti interni alla tuta devono scaldare la parte gelida e raffreddare quella bollente facendo scorrere acqua in sottili tubicini rigorosamente a tenuta stagna. Una perdita d’acqua nella tuta mentre si lavori all’esterno è un evento pericoloso.

Ne sa qualcosa Luca Parmitano, che il 16 luglio del 2013, durante la seconda attività extraveicolare della sua carriera, ha rischiato di affogare in una bolla d’acqua accumulatasi nel casco (all’evento è anche dedicato un documentario, Eva 23). Gli interventi fatti per prevenire il ripetersi di incidenti simili, evidentemente, hanno solo messo una pezza, perché a marzo di quest’anno Kalya Barron ha trovato acqua nel casco del tedesco Maurer e la cosa non poteva passare inosservata.

È opportuno ricordare che nessun indumento è più complesso, più costoso e più scomodo delle tute spaziali. Caratteristiche comprensibili quando occorra assolvere al difficile compito di gestire la differenza di pressione tra il vuoto cosmico (dove è nulla) e l’interno, che necessita di circa 1/3 di atmosfera perché un essere umano sopravviva. Per questo, costituite da molti strati di tessuti e materiali diversi, le tute sono scafandri semirigidi all’interno dei quali chiunque, astronauti compresi, faticherebbero a muoversi. Particolare attenzione è sempre stata dedicata ai guanti, per evitare che la rigidezza impedisca i movimenti. Non è però raro che dopo un’attività extraveicolare gli astronauti abbiamo le mani dolenti e sanguinanti.

Lo strato della tuta spaziale dove circola l’acqua

Il problema dell’invecchiamento delle tute Emu era noto da tempo e la progettazione delle tute di nuova generazione è iniziata nel 2007, quando la Nasa ha cominciato a pensare al ritorno alla Luna. Ci sono voluti dieci anni per arrivare al progetto delle tute xEmu (da “Exploration Extravehicular Mobility Unit”) che avrebbero dovuto sostituire le vetuste Emu.

Rendering delle xEMU della NASA

Niente da fare per la missione Artemis

Il primo banco di prova avrebbe dovuto essere la missione Artemis, che originariamente prevedeva il ritorno alla Luna entro il 2024 con un equipaggio formato dalla prima donna e dal primo astronauta afroamericano. Tuttavia, l’anno scorso, l’ispettorato generale della Nasa ha dichiarato la data irrealistica, anche perché le tute non potevano essere pronte prima del novembre 2024. Nonostante il prototipo delle xEmu fosse già disponibile nel 2019, a tutt’oggi le tute, il cui sviluppo è costato 420 milioni di dollari, non soddisfano gli standard di sicurezza richiesti dall’agenzia spaziale americana.

Non contenti del risultato, alla Nasa hanno pensato che i privati sarebbero stati più rapidi ed efficienti; l’agenzia ha quindi adottato una strategia “commerciale” anche per lo sviluppo delle tute e ha affidato un contratto per “Exploration Extravehicular Activities Services” (xEvas) a un consorzio guidato dalle capofila Collins Aerospace e Axiom. Saranno loro le proprietarie delle tute che potranno essere utilizzate anche da altri “clienti”. Il contratto dovrà coprire il guardaroba degli astronauti Nasa fino al 2034, con scafandri pensati per lavorare sia in orbita che sulla Luna, e una spesa massima di 3,5 miliardi di dollari.

Che fine farà la xEmu?

La Nasa affitterà le tute senza doversi preoccupare della loro manutenzione. Chissà se ne avrà un utilizzo esclusivo oppure succederà che le tute usate dagli astronauti statunitensi poi passino ai loro colleghi “commerciali”. In po’ come succede adesso per la navetta Crew Dragon, usata dalla Nasa e dai privati secondo una logica di mercato spaziale nel quale Axiom vuole essere protagonista con la costruzione della prima stazione privata.

Poco importa che Axiom (attiva da soli sei anni) non abbia mai prodotto una tuta; quelli di Collins Aerospace (e i loro partner) sono nel settore dai tempi del programma Apollo e di tute se ne intendono.
Non sappiamo che fine farà la xEmu; c’è da sperare che tutto il lavoro fatto (420 milioni di dollari) non vada perduto. Certo, Collins e Axiom non devono perdere tempo se vogliono essere pronti per il ritorno alla Luna, a oggi previsto nel 2025. Ci auguriamo la tuta per la prima donna venga realizzata tenendo conto delle differenze tra un corpo maschile e uno femminile. I costruttori delle tute ”storiche” non si erano posti questo problema e le astronaute hanno sempre dovuto adattarsi.

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