La sorveglianza sul posto di lavoro non è una novità. Se nelle fabbriche inglesi del ‘700 c’erano ispettori armati di frusta, agli operai e ai magazzinieri di oggi capita di dover sopportare l’umiliazione di pause cronometrate, quando vanno in bagno o fumano una sigaretta. Nei negozi, le telecamere a circuito chiuso servono ad accertarsi di due cose: che i clienti non rubino e i commessi non dormano. Ma anche i colletti bianchi, nel clima rassicurante di un ufficio, potrebbero restare sbalorditi se sapessero quanto sono osservati. Negli ultimi anni – soprattutto con la pandemia, che ha portato il lavoro nei salotti e sui tavoli delle cucine – la portata della sorveglianza aziendale è cresciuta a dismisura.
I numeri dello spionaggio
I dati a disposizione lasciano pochi dubbi. Tra aprile 2019 e aprile 2020, secondo uno studio della Commissione europea, la domanda globale di software di “spionaggio” è più che raddoppiata. L’ulteriore prova sono i numeri delle vendite di chi produce questi strumenti. Ad aprile 2020 sono triplicate quelle di Time Doctor, che registra video degli schermi degli utenti o scatta foto per assicurarsi che siano al computer. DeskTime, un software che traccia il tempo speso per le varie mansioni, ha fatto ancora meglio: vendite quadruplicate. Mentre la piattaforma ActivTrak, che usa il machine learning per analizzare l’attività dei dipendenti (come i movimenti del mouse e della tastiera), è cresciuta del 140% nel 2020 ed è arrivata a oltre 8.500 abbonati. Altri dati confermano questa tendenza. Prima della pandemia, soltanto un decimo delle grandi aziende interpellate da Gartner, una società di ricerca, disponevano di software di spionaggio. Nei prossimi tre anni, riporta l’Economist, è previsto che la quota raggiunga il 70 per cento. C’è poi un sondaggio, sempre citato dall’Economist, secondo cui, su oltre mille aziende attive nel 2021 in America, circa il 60% usava software di monitoraggio e un ulteriore 17% prevedeva di usare gli stessi strumenti in futuro. C’è di più: software ampiamente utilizzati, come Google Workspace, Microsoft Teams o Slack, possono comunque dire ai manager a che ora i dipendenti si registrano o quante chiamate effettuano sulla piattaforma. Ancora più che in un film di Fantozzi, il cartellino diventa un micidiale strumento di controllo. I badge moderni possono essere dotati di sensori di movimento e microfoni per tenere traccia di dove vanno gli impiegati, per sapere quanto tempo restano in una stanza e con chi interagiscono. Insomma, per avvisare il boss se qualcuno sta oziando.
I legislatori si rendono conto di queste maggiori possibilità di monitoraggio e prendono contromisure. O almeno ci provano. In America, nello stato di New York, i dipendenti soggetti a monitoraggio elettronico (di telefono, e-mail e attività su internet) devono essere informati in anticipo dalle aziende, in base a una legge introdotta il 7 maggio. A chi trasgredisce tocca una multa che va da 500 a tremila dollari. Anche la California valuta misure per proteggere la privacy dei lavoratori, incluso il divieto di monitoraggio digitale senza preavviso. E da noi cosa succede? Nell’Unione europea c’è il regolamento generale sulla protezione dei dati, che stabilisce alcuni diritti fondamentali per il personale. Dal 1995 le aziende hanno dovuto dimostrare che il monitoraggio ha una base commerciale legittima, come prevenire il furto di proprietà intellettuale o aumentare la produttività. Ma è chiaro che, con il lavoro da remoto in forte espansione e il conseguente uso massiccio di strumenti digitali, il confine tra l’adozione di nuove tecnologie e la protezione dei lavoratori è sempre più sfumato. Nuove regole di salvaguardia della sfera privata dovranno emergere. E tuttavia potrebbero non riuscire a dissuadere gli uffici dall’adottare la loro versione di Grande Fratello.
Legittima sorveglianza?
A difese dalle aziende, va detto che non sempre questa smania di controllo ha scopi maligni. Esiste la legittima necessità di garantire un certo livello di sicurezza, quando in ballo ci sono dati che le società non possono lasciarsi sfuggire. Per essere certi che i dipendenti non condividano informazioni sensibili, grandi gruppi finanziari come JP Morgan Chase controllano le chiamate, analizzano e-mail e chat, tengono traccia della durate della permanenza del personale nei loro edifici. Come racconta un articolo recente della Brookings Institution, gli smartphone aziendali hanno funzionalità sofisticate di geolocalizzazione che permettono di tracciare i movimenti e possono mostrare la presenza di altri dispositivi entro pochi metri, calcolando il tempo trascorso nelle vicinanze. Ci sono software che usano dati biometrici come movimenti oculari, spostamenti del corpo, variazioni della voce ed espressioni facciali per assegnare un certo punteggio di rischio a ciascun lavoratore. Queste informazioni servono poi alle aziende per valutare la probabilità che qualcuno lasci trapelare o rubi segreti aziendali.
Dietro la sorveglianza c’è anche un altro motivo, in teoria, molto legittimo: calcolare la produttività e, se possibile, migliorarla. Di recente Zoom ha annunciato che stava conducendo ricerche sul software di intelligenza artificiale per monitorare il comportamento umano durante le videochiamate. L’anno scorso Fujitsu, gruppo tecnologico giapponese, ha presentato un software che determina la concentrazione dei dipendenti in base all’espressione del volto. Enaible, un altro software di intelligenza artificiale, afferma di “estrarre dati” per “capire dinamicamente come lavori”. Senz’altro utile. Ma è anche l’ennesimo strumento con cui i manager possono scovare fannulloni, per poi licenziarli. I datori di lavoro possono seguire ogni sequenza di tasti o movimento del mouse, accedere a webcam e microfoni, scansionare e-mail o acquisire schermate di dispositivi. Basta un prodotto come Flexispy. Vuoi sapere se i tuoi dipendenti mangiano o bevono in ufficio? Installa il banale RemoteDesk (e ringrazia Google). Ma si può fare monitoraggio anche con Workspace (sempre opera di Google), oppure Microsoft Teams e Slack, tra i software di lavoro condiviso più usati.
Non è solo un male. Nelle registrazioni restano le tracce degli aggressivi e dei prepotenti, che così – forse – saranno costretti a comportarsi meglio. In futuro si potranno affrontare meglio pregiudizi e discriminazioni, combattere il bullismo. Raccolti in modo responsabile, i dati possono identificare anche buone pratiche e aumentare le prestazioni di un’azienda. Evitare stress eccessivo tra i dipendenti, per esempio, gestendo tempi e calendario di lavoro. Se con la tecnologia l’azienda funziona meglio, ci sono vantaggi per tutti: azionisti, manager e semplici dipendenti. E allora qual è il problema? È così sgradevole essere osservati?
La sorveglianza dall’alto
“Immaginiamoci di essere un freelance”, spiega Ian MacRae, psicologo, autore di Dark Social: Understanding the Darker Side of Work, Personality and Social Media. “Potrebbe capitarci di usare volontariamente mezzi di sorveglianza, per monitorare la nostra produttività, il tempo trascorso su uno specifico obiettivo. E la cosa non ci disturberebbe affatto, anzi, saremmo grati a chi offre lo strumento”. Lo stesso meccanismo vale in un’azienda, continua MacRae. “Per evitare un clima oppressivo, la diffusione del monitoraggio deve partire dai dipendenti, non dal datore di lavoro”. Uno dei grandi problemi della sorveglianza decisa dall’alto, secondo MacRae, è che incoraggia “a sembrare indaffarati”, che è l’opposto della vera produttività. È sostanzialmente d’accordo Shamal Kumal, responsabile delle comunicazioni interne di Asos, il portale di commercio online di vestiti. “C’è una differenza cruciale”, dice, “tra la sorveglianza, che è un’operazione ‘top down’, e la supervisione, che è flessibile e mirata ad affrontare potenziali problemi”. E aggiunge: “Tutto si riduce ad avere fiducia, a essere chiari e precisi su come si misurano le prestazioni”.
Le storie di chi si oppone a progetti di sorveglianza sono ovunque. Nel 2020, racconta l’Economist, una piccola rivolta interna ha costretto Barclays, una banca inglese, a rottamare il software con cui tracciava il tempo che i dipendenti trascorrevano alle loro scrivanie, “pungolando” quelli che si concedevano pause troppo lunghe. A Microsoft è successa la stessa cosa: ha dovuto cestinare un programma che monitorava la frequenza con cui il personale partecipava e interveniva nelle riunioni video o inviava e-mail. Il software, si è capito, finiva col mettere i dipendenti l’uno contro l’altro. E ciò indica un altro grande problema: i dispositivi di sorveglianza per aumentare la produttività non vengono ben testati. E così, spesso, sono controproducenti: fanno calare la fiducia e salire lo stress. Lo confermerebbero anche gli studi di Ian MacRae, secondo cui esiste una correlazione molto forte tra eccesso di sorveglianza e scarsa produttività. Come è successo, ricorda anche l’Economist, a diversi call center nel mondo, tra i primi ad adottare tecniche di sorveglianza diffusa. Il monitoraggio sfacciato delle prestazioni è stato causa “di esaurimento emotivo, di depressione e, infine, di un elevato turnover dei dipendenti”. Un disastro, insomma, e dunque non c’è da stupirsi se i lavoratori sono diffidenti.
Supervisione e produttività
Gartner ha scoperto che, in nove grandi economie del pianeta, i dipendenti preferiscono quasi sempre la supervisione vecchio stile, cioè manager che verificano di persona cosa stanno combinando i loro sottoposti, rispetto al controllo digitale. Solo il 16% dei lavoratori francesi – è emerso dalla stessa ricerca – ritiene accettabile qualsiasi forma di sorveglianza digitale. Ma in un mondo di lavoro ibrido, il contatto tra persone non è sempre garantito. E allora ci si affida alla tecnologia, costruendo goffi Grandi Fratelli. Stabilire linee guida chiare non è facile, e così cresceranno i dubbi sull’abuso di sorveglianza. Forse in futuro sarà il mercato a promuovere un giusto equilibrio. Nel senso che le aziende che praticano una sorveglianza dura non riusciranno a trattenere talenti. Il compromesso ideale, secondo i fautori del lavoro agile, si basa sulla formula ‘fiducia, delega, autonomia’. In fondo, semplice buon senso: fissare obiettivi e fare in modo che le persone siano motivate a raggiungerli. In questo la tecnologia digitale può essere di grande aiuto: basta che i suoi strumenti vengano condivisi e non calati dall’alto.
E se lavorare in modo diverso significa lavorare meglio, potrebbe anche avverarsi il sogno di molti: lavorare meno. Cosa che sta sperimentando Methodos, una società di consulenza italiana con una sessantina di dipendenti che aiuta multinazionali e grandi aziende a cogliere le opportunità di cambiamenti di cultura e processo. La settimana corta. Lavorare quattro giorni anziché cinque. L’esperimento di Methodos è cominciato con un progetto pilota a inizio 2022. Un primo gruppo di sei persone, a cui si è aggiunto un secondo gruppo e così via. Tutti sono coinvolti, dallo stagista ai manager più rodati, ed entro la fine dell’anno – questo è l’obiettivo – l’intera azienda farà la settimana corta. “Questo esperimento non deve andare a discapito dei clienti e della produttività”, spiega Alessio Vaccarezza, amministratore delegato di Methodos. “I nostri clienti sono stati informati e abbiamo assicurato loro che non ci sarà alcun impatto sul nostro servizio”. Il progetto è costantemente monitorato, aggiunge Vaccarezza. Ma sembra un giusto tipo di monitoraggio, condiviso dal gruppo e non imposto dall’alto. “Dai nostri dipendenti vogliamo sapere se sono soddisfatti della settimana di quattro giorni, se riescono comunque a raggiungere gli obiettivi, che soluzioni trovano, che cosa stanno sperimentando. E anche che cosa fanno nel tempo libero”. Tecnologia ed empatia messe a frutto per cercare nuove soluzioni. Magari si riuscirà davvero a produrre di più lavorando di meno. Lo stipendio, però, è lo stesso. Anche se qualcuno ci aggiunge – gratis – lezioni di yoga. Per esempio FlixBus, la società di viaggi in autobus extraurbani, offre ai dipendenti in Italia uno sportello di assistenza psicologica e corsi di meditazione. “Siamo convinti che la buona gestione di una realtà non possa prescindere dal benessere psicofisico di chi ne fa parte”. Parola di Andrea Incondi, managing director di Flixbus Italia.
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