centrale nucleare di Hinkley Point
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Ritorno all’uranio: le grandi potenze riscoprono il nucleare per non dipendere dal petrolio russo

Articolo apparso sul numero di agosto 2022 di Forbes Italia. Abbonati!

Cosa c’entra lo Utah con l’invasione dell’Ucraina? Questo stato americano, tra Nevada e Colorado, ospita montagne, deserti, un grande lago e, nella parte meridionale, un altopiano con un sito di estrazione dell’uranio, uno dei pochi rimasti negli Stati Uniti. In un altro continente infuria la guerra di Putin, che non fa solo morti nelle città e nei campi di battaglia, ma destabilizza l’economia globale e costringe molti Paesi a trovare nuovi equilibri. Particolarmente colpito è il mercato dell’energia. L’area di White Mesa, nel sud dello Utah, sembra una reliquia dei tempi del boom. Per anni ha continuato a macinare indefessa, convertendo uranio in polvere condensata, mentre altri luoghi di estrazione americani chiudevano sopraffatti dalla concorrenza. Nel 1980 le miniere di uranio statunitensi, al culmine della produzione, sfornarono in un anno circa 19 milioni di chilogrammi. Poi il crollo. Difficile competere con le importazioni a basso costo da Canada, Australia e, in seguito, ex stati sovietici. Ma la guerra dell’energia si combatte ovunque, anche da un altopiano dello Utah. Da lì potrebbe scattare il rilancio dell’industria americana dell’uranio, la materia delle centrali nucleari.

Quella atomica è un’energia che il presidente americano, Joe Biden, vuole incentivare, visto che produce zero gas serra, e sta tornando quindi di moda oggi che il mondo deve far fronte alla crisi climatica. Il problema è che l’uranio di cui si servono gli Stati Uniti è importato per circa la metà dalla Russia e da due suoi alleati: Kazakistan e Uzbekistan. Un bel dilemma, quindi. Da una parte c’è chi chiede di tagliare queste importazioni, a partire da quelle in arrivo dalla Russia, affidandosi invece allo sviluppo di fonti interne. Dall’altra, se gli Stati Uniti optassero davvero per il bando, l’industria del nucleare si ritroverebbe all’improvviso con poco carburante. Tanto più che la Russia, al momento, è l’unico fornitore commerciale dell’uranio necessario per i reattori di ultima generazione, che mirano a ridurre costi e problemi di sicurezza. La soluzione quindi parrebbe ovvia: ricavarsi da sé la materia prima. John Barrasso, senatore repubblicano del Wyoming, è determinato a sostenere l’industria dell’uranio nel suo territorio. “Abbiamo messo al bando gas, carbone e petrolio russo. Non c’è ragione per continuare a comprare uranio da Mosca quando ne abbiamo così tanto negli Stati Uniti”, ha detto. E nel frattempo sono stati presentati due disegni di legge in Congresso, da membri sia democratici che repubblicani, per vietare le importazioni di uranio dalla Russia. A questo si aggiungono le manovre del governo federale, che, secondo il segretario dell’energia Jennifer Granholm, starebbe sviluppando “una strategia nazionale per l’uranio”. Poi c’è TerraPower, la società cofondata da Bill Gates che sta costruendo un reattore nel Wyoming. All’inizio avrebbe voluto servirsi di materia prima russa, ma ora ha deciso di cambiare fornitori. 

Ecco quindi che le aziende americane di uranio cominciano ad annusare l’affare. Il prezzo di mercato, secondo alcuni analisti, potrebbe aver raggiunto un livello quasi sufficiente da giustificare il riavvio di miniere a lungo inattive. C’è speranza, ma anche lo scoglio della realtà: il prezzo, come detto, è soltanto “quasi” sufficiente per tornare a scavare. Quindi l’industria estrattiva avrà bisogno di sovvenzioni dal governo. Ma questo forse non è l’ostacolo più grosso. L’apertura di nuovi siti d’estrazione, specialmente d’uranio, incontra spesso l’ostilità di comunità locali e gruppi di protezione ambientale. Negli Stati Uniti come nel resto del mondo, soprattutto in Occidente. Per esempio, ci sono più di 500 miniere d’uranio abbandonate solo nelle terre Navajo. Mentre gli ambientalisti dell’Arizona si battono contro lo sviluppo di una miniera inattiva a sud del Grand Canyon. Anche le strutture di White Mesa attirano una ricca dose di ingiurie. Vengono descritte – in questo caso dall’associazione Grand Canyon Trust – come discariche di rifiuti radioattivi. Soltanto una piccola quantità di uranio verrebbe estratta dalle scorie, protestano gli attivisti, mentre il resto degli avanzi tossici filtrerebbero nell’ambiente, inquinandolo.

L’impianto per la produzione di uranio di White Mesa, nello Utah, ha continuato a operare anche mentre molti altri luoghi di estrazione cedevano alla concorrenza straniera. Nel 1980, al culmine della produzione, le miniere americane sfornarono 19 milioni di chili.

Se si cercano con calma altri dati, però, si scopre che l’energia nucleare non è poi così pericolosa. Uno studio recente pubblicato da Our World in Data, afferma che un terawattora di elettricità ottenuto bruciando carbone è associato a una media di 24,6 morti, in gran parte causati dell’inquinamento atmosferico da particolato. Il gas naturale è circa dieci volte meno letale. Più sicura di tutte risulta l’elettricità delle centrali nucleari: secondo la ricerca di Our World in Data, citata dall’Economist, l’energia dell’atomo causerebbe solo 0,03 morti per terawattora. Anche se si includono nel calcolo i quattromila decessi per le radiazioni di Chernobyl e le 573 vittime legate all’incidente di Fukushima, in Giappone – queste ultime, tuttavia, morte per “spossatezza e aggravamento di malattie croniche” -. Non stupisce, quindi, che per la transizione energetica gli Stati Uniti, come diverse altre democrazie (Francia e Corea del Sud, per citarne alcune), puntino a rafforzare il nucleare, tra l’altro appena inserito, insieme al gas, nella lista degli investimenti “green” dal parlamento europeo. 

Del resto, puntare sul nucleare sembra inevitabile, perché le rinnovabili dipendono ancora troppo dagli sbalzi improvvisi del meteo. Ne è una prova ciò che è successo lo scorso inverno, insolitamente poco ventoso, che ha compromesso l’offerta d’energia eolica in tutta Europa. Cosa che ha poi contribuito al rialzo dei prezzi del gas. Così Biden vuole sostenere le centrali nucleari esistenti e incentivare lo sviluppo di nuovi reattori avanzati. In fondo l’obiettivo degli Usa è grossomodo lo stesso dell’Unione europea: dimezzare le emissioni di CO2 entro il 2030 e raggiungere le zero emissioni nette nel 2050. Il nucleare fornisce circa il 20% dell’elettricità statunitense, un ammontare analogo a quello generato dalle rinnovabili. Il resto viene da fonti fossili, che inquinano e producono anidride carbonica, il gas responsabile del cambiamento climatico. Gli Stati Uniti, però, sono reduci da decenni di finanziamenti scarsi, malgrado siano ancora oggi il più grande produttore al mondo d’energia nucleare. Tante centrali sono agli sgoccioli del loro ciclo, e negli ultimi 20 anni è stato costruito un solo nuovo impianto. Ora l’urgenza della crisi potrebbe iniettare nuova linfa in questo settore. Compresa l’estrazione di uranio, in modo da non dipendere più così tanto dalle forniture di un nemico conclamato come la Russia. 

Ci sono però diversi ostacoli. Non è tanto un problema di danni all’ambiente, quanto soprattutto di tempi e di costi. Ci vogliono parecchi anni per costruire le centrali. Troppi, dicono i critici, per avere un impatto rilevante sulla crisi climatica. E l’energia ricavata viene poi offerta a prezzi tendenzialmente più alti della concorrenza: le fonti fossili sono più economiche, e ormai lo sono anche le rinnovabili. 

A questo punto spostiamoci in Inghilterra, ai margini del Canale di Bristol, dove sta prendendo forma l’ultima centrale costruita in Occidente. Si chiama Hinkley Point C, un impianto ad acqua pressurizzata progettato dal gigante dell’energia francese Edf (società che il governo di Macron ha deciso di nazionalizzare). I due reattori, una volta ultimati, garantiranno alla rete britannica 3,2 gigawatt di potenza, circa il 7% del fabbisogno elettrico del Paese. Il problema è che non si riesce a rispettare la tabella di marcia. L’impianto è in ritardo i costi hanno superato le previsioni. Circa dieci anni fa, al momento della firma dei contratti con Edf, si pensava che Hinkley Point avrebbe venduto un megawattora d’elettricità a 92 sterline. La stessa quantità d’energia ne costava 125, ricorda l’Economist, se a produrla era un parco eolico off-shore. Ma i tempi dei lavori si sono allungati, il budget si è gonfiato e la centrale potrebbe essere costretta a vendere energia a un prezzo maggiorato. Tutto questo mentre i produttori di eolico off-shore sono andati nella direzione opposta: oggi offrono energia a meno di 50 sterline per megawattora. Nel frattempo è diminuito anche il costo dell’elettricità dai pannelli solari. Tutto finito, allora? In fondo qui non sono gli attivisti a remare contro: il nucleare sembra bocciato dai freddi calcoli dell’economia. In Europa ci sono altri reattori che annaspano, anche loro basati sulla stessa tecnologia. Ad esempio i lavori sul terzo impianto di Flamanville, in Francia, sono cominciati 15 anni fa. Ritardo cronico: ancora non è stato venduto nemmeno un watt. Lievitano i costi e l’azienda responsabile – sempre Edf – dovrà rifarsi sui consumatori. Stessa storia in Finlandia, dove si costruisce un altro impianto ad acqua pressurizzata. Anche questo opera di Edf, anche questo in ritardo. La domanda così sorge spontanea: c’è qualcuno che rispetta i tempi? 

In effetti, pare che russi e cinesi siano più veloci. Rosatom, il colosso dell’energia controllato dal Cremlino, ha costruito in Russia cinque centrali nucleari tra il 2008 e il 2021. Nello stesso periodo la Cina ne ha messe in funzione diverse, anche ad acqua pressurizzata. Perché così in fretta? Si fanno meno controlli? In mercati di esportazione come Pakistan, Egitto e Indonesia non è escluso che gli ispettori chiudano un occhio. Ma Rosatum e il produttore cinese China General Nuclear Power Corp dovevano portare le loro maestranze anche in Europa. C’erano accordi con Rosatom per costruire impianti in Bulgaria, Finlandia e Repubblica Ceca, poi andati in fumo con la guerra in Ucraina. Anche il Regno Unito ha messo in pausa il progetto con l’azienda cinese. Meglio non delegare a potenziali nemici, avrà pensato il governo, settori strategici come il nucleare. 

Grandi speranze si sono quindi riversate su una nuova generazione di impianti, i cosiddetti ‘piccoli reattori modulari’, una tecnologia che sta raccogliendo interesse e investimenti in molte parti del mondo. Si tratta di centrali più versatili e snelle, che dovrebbero costare meno ed essere più rapide da costruire. Secondo l’inglese Rolls-Royce, che ne sta progettando alcune, il prezzo si aggirerebbe intorno ai 2,6 miliardi di euro, contro gli oltre dieci miliardi di un impianto tradizionale. Nel piano di rilancio del nucleare francese, Macron ha detto di voler aggiungere questi piccoli nuovi reattori, che affiancheranno versioni aggiornate di centrali ad acqua pressurizzata. Ma c’è un problema: i reattori modulari, per quanto promettenti, sono ancora una tecnologia in gran parte nelle prime fasi di sviluppo. L’unica forma ben sperimentata di nucleare in grado di fornire energia nei prossimi anni è quella presente oggi, chiariscono gli esperti. Cioè i grandi impianti come quelli ad acqua pressurizzata. 

Torniamo quindi alla centrale sul Canale di Bristol. Questo è un test decisivo per capire se possono essere ridotti tempi e costi. Dunque cosa sta succedendo? Vero, c’è un ritardo, ma le notizie non sono del tutto negative. Edf dice che la costruzione del secondo reattore è stata più rapida del 30% rispetto a quella del primo. Pare che il miglioramento sia dovuto a nuove tecniche di assemblaggio. Invece di essere saldati pezzo per pezzo in loco, i componenti vengono costruiti fuori sede, lontano dal reattore, poi spediti sul posto in parti quasi standardizzate e sollevati da enormi gru per l’assemblaggio finale. E più centrali si costruiscono, più si acquisisce esperienza, più il processo diventa rapido.

Resta il problema di mettere le mani sulla materia prima, l’uranio. L’Europa vuole emanciparsi da gas e petrolio russi. Ma prima o poi dovrà fare i conti anche con l’origine del carburante del nucleare. Anche qui siamo dipendenti dal Cremlino: l’uranio che importiamo viene per il 20% dalla Russia e per un altro 19% dal Kazakistan. Dipendono dall’uranio russo soprattutto le centrali dell’est Europa e gli ultimi tre impianti rimasti attivi in Germania. Gli altri grandi fornitori sono il Niger (20% delle importazioni), di cui si serve molto la Francia, e il Canada (18%). Come gli americani, forse, anche gli europei dovranno cominciare a scavare.

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