Articolo tratto dal numero di dicembre 2022 di Forbes Italia. Abbonati!
“Il Sahel rappresenta una priorità strategica per l’Ue e i suoi stati membri”. Così si esprimeva il Consiglio europeo nel maggio 2019. Il Sahel, in arabo ‘bordo del deserto’, è un territorio compreso tra le zone desertiche del Nordafrica e quelle ricche di vegetazione più vicine all’Equatore. Suddiviso in una dozzina di stati, come Ciad, Niger, Mali, Burkina Faso e Mauritania, si contraddistingue per gravi instabilità politiche, altissimi livelli di povertà, carestie e presenza di terroristi islamici.
Dal 2019 questa zona ha registrato cinque colpi di stato. L’ultimo in ordine temporale è avvenuto in Burkina Faso, dove il 30 settembre il generale Ibrahim Traoré ha rimosso la giunta del colonnello Damiba. Su questo ennesimo golpe aleggia lo spettro dell’ingerenza più o meno pesante del Cremlino. Preoccupazione condivisa anche dalla rappresentante Ue per il Sahel, Emanuela Del Re, che ha affermato: “Il Sahel e l’Africa non possono diventare un territorio in cui si giocano equilibri globali. Siamo ancora lontani da questo, ma la minaccia russa su questo terreno è molto seria”.
Nonostante nelle strade della capitale burkinabé sventolassero numerose bandiere russe, non ci sono prove dell’intervento diretto di Mosca o della compagnia di contractor russa Wagner Group. La presenza russa in Africa, comunque, è di sicuro in crescita. Negli ultimi anni Mosca, anche tramite la Wagner, sfruttando la debolezza dei governi saheliani, sta utilizzando leve economiche e militari per perseguire i suoi interessi nell’area.
Lo testimoniano i 19 accordi di cooperazione militare siglati con vari governi africani tra il 2015 e il 2019, grazie a cui le armi russe sono predominanti in tutto il continente. Inoltre Putin, per influenzarne la politica estera, può far leva sulla dipendenza totale di molti stati del Sahel, come il Senegal, dal grano e dai fertilizzanti russi. I mercenari della Wagner, visti da più parti come la longa manus dei servizi segreti russi, forniscono poi servizi di sicurezza ai fragili governi del Sahel. In molti casi affiancano gli eserciti regolari, impreparati e mal equipaggiati, in operazioni di contrasto ai terroristi islamici, in cambio di diamanti e oro, come avvenuto nella Repubblica Centrafricana.
Un contesto geopolitico così frammentato, secondo un’analisi della ong International Crisis Group, sta diventando la nuova arena di competizione tra l’Occidente e la Russia, con quest’ultima intenzionata a sostituire la storica presenza francese nel Sahel. Esempio lampante è il Mali, dove, dopo il golpe dello scorso anno, la giunta militare al potere ha dichiarato che il contingente francese non era più gradito. Macron è stato così costretto a ritirare i suoi militari dal paese, sostituiti poi dai mercenari della Wagner.
Questo clima di ostilità antifrancese e il diffuso sentimento filorusso, secondo il think thank estone International Centre for Defence and Security, vengono ingigantiti da campagne mediatiche ad hoc, finanziate da oligarchi russi. Perfino il vice segretario statunitense alla Difesa per l’Africa, Chidi Blyden, in audizione al Senato ha dichiarato che “l’azione dei soldati occidentali in Africa è depotenziata dalla mancata cooperazione da parte dei governi guidati da militari, dando un grosso vantaggio a Russia e Cina”.
Anche il governo di Pechino, infatti, esercita il suo soft power in Africa. Dal 2009 ha inviato nel continente più di un milione tra imprenditori e lavoratori. L’interesse del governo cinese per l’Africa è rivolto alle sue immense risorse naturali. Per accedervi, Pechino fornisce da anni sostegni economici generosi ai governi locali e costruisce infrastrutture. Nel Sahel, in particolare, ha cercato di imporsi nell’estrazione di alcune materie prime fondamentali per la sua economia e per quella globale.
Dal 2011 la China National Nuclear Corporation estrae uranio in Niger, che è il quarto produttore mondiale, e dal 2018 ha ottenuto dal governo l’autorizzazione per ricercare nuove riserve nel nord del paese. Sempre in Niger, che secondo il governo locale siede su oltre due miliardi di barili di petrolio, la China Petroleum Corporation sta costruendo il più grande oleodotto africano. Quest’ultimo servirà per trasportare il petrolio estratto in Niger, che passerà da una produzione di 20mila barili al giorno a 500mila entro il 2030, al porto di Sèmè, nel Benin, da cui sarà spedito in tutto il mondo. In Mali, invece, la cinese Ganfeng Lithium, tramite una joint venture paritetica con l’australiana Leo Lithium, estrae litio, fondamentale per la produzione delle batterie delle macchine elettriche, di cui la Cina è leader globale.
L’importanza del Sahel dal punto di vista economico l’aveva capita bene l’ex presidente francese François Hollande. Nel 2013 il contingente militare di Parigi nel Sahel, oltre a contrastare il terrorismo jihadista, avrebbe dovuto anche tutelare le aziende francesi che operavano nell’area. Tra queste, una delle più strategiche era la multinazionale Orano, che in Niger estraeva il 30% dell’uranio necessario al funzionamento delle centrali nucleari francesi. Dal Niger, per di più, secondo un rapporto di Medici Senza Frontiere, passa almeno il 20% dei migranti diretti in Europa.
La stabilizzazione di questi Paesi africani, quindi, dovrebbe anche essere centrale per il contenimento dei flussi migratori verso l’Ue, come evidenziato proprio dal primo ministro Meloni e dal presidente Macron durante il loro primo incontro a Roma in ottobre. Controllo dei flussi migratori, materie prime e lotta al terrorismo islamico: tre temi fondamentali per il destino dell’Europa, che si incrociano in questa regione martoriata dell’Africa centrale dove l’Ue non potrà lasciare campo libero a Cina e Russia. Come diceva lo storico senegalese Cheick Anta Diop, riferendosi agli europei, “non abbiamo avuto lo stesso passato, noi e voi, ma avremo necessariamente lo stesso futuro”. Noi europei dovremo decidere, perciò, se lasciare questo futuro in mano ad altri o meno.
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