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La rivoluzione tradita dello smart working: perché le aziende stanno richiamando i dipendenti in ufficio

È una sera di ottobre a Imsouane, un villaggio sulla costa atlantica del Marocco. In un ristorantino dipinto di blu c’è un gruppo di trentenni davanti a una grigliata di pesce. Sembrano surfisti giramondo, in realtà sono dipendenti di multinazionali. “Lavoro da qui”, dice il manager di un grande conglomerato. Dopo la pandemia si è appassionato al surf. È stato in Portogallo, a Bali, poi in Marocco. In ufficio mai. Era il 2022. La sua vita da nomade, in qualche modo, ancora resiste: un appartamento a Tangeri e un fuoristrada per le gite al mare e nel deserto. Ma è fortunato.

Nel mondo corporate, dopo la sbornia di Zoom, è in corso una migrazione inversa. Le aziende di Wall Street sono state tra le più decise a riconvocare i lavoratori in ufficio. Negli ultimi mesi, però, anche molti titani della tecnologia, come Apple, Google e Meta, hanno chiesto ai loro dipendenti di presentarsi in sede almeno tre volte a settimana. Alla fine l’utopia libertaria dell’abbattimento degli uffici, foraggiata durante la pandemia da una serie di studi e ricerche, sembra ridursi a nient’altro che questo: un’utopia. Le aziende si sono accorte che gli aumenti di produttività che quegli studi suggerivano erano troppo ottimistici. La verità è che l’ufficio serve. Microsoft Teams, come surrogato di colleghi in carne e ossa, va bene solo fino a un certo punto.

L’utopia della fine degli uffici

Eppure all’inizio non sembrava così. Nel 2020, in piena pandemia, due dottorande di Harvard pubblicarono un articolo sul rendimento dei lavoratori di call center assunti da un grande rivenditore online. Veniva preso in esame il periodo tra gennaio 2018 e agosto 2020. Lo studio fece molta impressione perché riscontrò una crescita dell’8% del numero di chiamate gestite ogni ora dai dipendenti che si erano spostati dagli uffici alle case. Come prova dei benefici del lavoro remoto era citato spesso anche uno studio di Nicholas Bloom, professore di economia a Stanford. Dalle ricerche di Bloom, che analizzavano un migliaio di lavoratori di un’agenzia di viaggi cinese, veniva fuori che i dipendenti in remoto erano il 13% più efficienti dei loro colleghi in ufficio.

C’è però un dettaglio cruciale che forse, all’inizio, è stato sottovalutato. La produttività, secondo il professor Bloom, aumentava a due condizioni: che il lavoro da casa fosse volontario e che alla fine della settimana ci si ritrovasse comunque in ufficio a discutere di nuovi progetti attorno a un vero tavolo, non in una conferenza su Zoom.

A maggio, con buona pace della tecno-utopia del lavoro remoto, è stata pubblicata dalla Federal Reserve di New York una versione rivista dell’articolo delle ricercatrici di Harvard, Natalia Emanuel ed Emma Harrington. Secondo questa nuova versione, la presunta spinta all’efficienza dei lavoratori casalinghi si era trasformata in un calo della produttività del 4%. Nel 2022 anche il professor Bloom ha aggiornato le sue ricerche sulla società di viaggi cinese. L’ha visitata di nuovo, questa volta per indagare gli effetti di una sperimentazione sul lavoro ibrido. Questi i risultati: un impatto trascurabile sulla produttività. Poi Bloom si è accorto anche che i dipendenti in ufficio avevano giornate di lavoro più lunghe e i programmatori scrivevano di più.

Lo smart working cambia la vita

È anche vero, però, che non si può tornare indietro. Il lavoro ibrido è qui per restare. Secondo Bloom, la massiccia crescita del numero di persone che lavorano da casa potrebbe essere il più grande cambiamento nell’economia statunitense dalla Seconda guerra mondiale. Oggi il 30% della forza lavoro americana è impiegata in modo ibrido, cioè qualche giorno la settimana in ufficio, il resto da casa. Semplicemente perché svincolarsi ogni tanto dall’ufficio migliora la vita. Rende più felici. E le aziende devono tenerne conto, altrimenti perdono talenti. Le conseguenze della pandemia sull’andamento delle assunzioni si fanno ancora sentire: la manodopera continua a essere scarsa, soprattutto nel settore dei servizi. Ecco perché il lavoro a distanza persiste

Il Covid in alcuni paesi, e soprattutto negli Stati Uniti, ha dato finalmente più potere negoziale ai lavoratori. Che hanno avuto meno paura di lasciare il proprio posto, di cercarne uno magari più interessante, meglio pagato o meno impegnativo, oppure di contrattare con la società un impiego con forme ibride. La piacevolezza di stare a casa un paio di volte a settimana. La nuotata o la corsa mattutina, la spesa, recuperare i figli a scuola, l’appuntamento col dentista. Grazie al lavoro ibrido, tra l’altro, le persone trascorrono meno tempo in viaggio, metropolitana, treno e macchina. Il che, dal loro punto di vista, potrebbe sembrare un aumento della produttività. Le misure convenzionali, però, questo ancora non sembrano rilevarlo.

In ufficio per condividere

C’è stata un’infornata di nuovi studi il cui verdetto lascia pochi dubbi: il lavoro funziona meglio in ufficio, in mezzo ai colleghi. Eccone alcuni: Michael Gibbs dell’Università di Chicago e Friederike Mengel e Christoph Siemroth, entrambi dell’Università dell’Essex, hanno riscontrato un calo di produttività del 19% per i dipendenti in remoto di una grande azienda informatica asiatica. Un altro studio ha stabilito che anche i professionisti degli scacchi giocano meno bene nelle partite online rispetto agli incontri faccia a faccia. Un’ulteriore ricerca ha dimostrato che le videoconferenze inibiscono il pensiero creativo.

Del resto, per innovare bisogna comunicare e contaminare. Pensiamo alla nostra storia: lo sviluppo del capitalismo in Occidente è andato di pari passo con la crescita delle città e del numero di persone che si scambiavano idee in spazi pubblici o quasi pubblici. È questa mescolanza che favorisce la creatività. Così, anche nel dopo pandemia, gli uffici mantengono il loro ruolo, magari reinterpretati come centro di scambio, di marketing, di condivisione di idee, come luoghi che esprimono l’identità del brand. Ci si va per lavorare e incontrare colleghi, ma anche per fare rete, che è fondamentale per l’innovazione.

Il capitale umano

In fondo non è niente di sorprendente, come ha capito chiunque abbia passato gli ultimi anni lavorando dal proprio salotto. Per le persone è più difficile collaborare da casa. I funzionari intervistati in uno studio della Federal Reserve hanno detto che la lontananza fisica dei loro colleghi è stata un ostacolo. Ovvio: quando c’è qualcuno nella stanza accanto, è molto più naturale chiedergli aiuto o assistenza e imparare da lui. La teleconferenza è una pallida imitazione delle riunioni in carne e ossa. In Microsoft, ad esempio, è stato osservato che, senza il contatto faccia a faccia, le reti professionali dentro l’azienda diventano più statiche e isolate.

Alcuni dei costi di coordinamento del lavoro a distanza potranno anche diminuire. Ci si abitua e si diventa bravi, col tempo, a usare Zoom e Microsoft Teams. Ma c’è un costo che non può essere abbattuto, ricorda l’Economist, cioè il mancato sviluppo del capitale umano. Esaminando un gruppo di ingegneri informatici, uno studio di Harvard ha scoperto che il feedback scambiato tra colleghi è diminuito di molto dopo il passaggio al lavoro a distanza. Mentre due ricercatori del Massachusetts Institute of Technology hanno documentato un calo di apprendimento tra i lavoratori in remoto: chi sta negli uffici impara più in fretta.

Il valore della flessibilità

Possiamo immaginare anche che il lavoro da casa, al contrario, avvenga senza troppe ripercussioni negative sul rendimento. Il caso tipico potrebbe essere un professionista già avviato, magari in ambito legale, che fa consulenze di medio e alto livello per una società. Svolge funzioni qualificate, ma grossomodo di routine, e nel frattempo si gode la vita. Pur di lavorare in remoto accetterebbe anche un salario leggermente più basso. E da casa, piuttosto che in uffici pieni di gente, potrebbe essere più facile anche portare a termine compiti che richiedono concentrazione continua per lunghi periodi. Ecco perché così tante persone sono diventate allergiche all’ufficio. Per molti, quindi, il futuro rimarrà ibrido. Resta il fatto che le aziende tenteranno gradualmente di togliere dalle case i loro dipendenti, spostando l’equilibrio della settimana di lavoro verso gli uffici.

L’equilibrio, a questo punto, è restare flessibili. Giampiero Zurlo, fondatore e amministratore delegato di Utopia, società di comunicazione istituzionale e public affair, durante la pandemia ha gestito una sessantina di persone in lavoro remoto tra Roma, Milano e Bruxelles. Grazie ai software di lavoro condiviso, la sua azienda ha continuato a operare. Ma Zurlo si è accorto in fretta degli effetti collaterali. Racconta che la mancanza di contatto fisico tra colleghi ha pesato, e dunque bisogna portare le cose positive di quell’esperienza nel mondo post Covid. Flessibilità, appunto. Del resto è la routine coatta che uccide l’innovazione. Cose come timbrare il cartellino tutti i giorni.

L’impatto sugli immobili

A proposito di cartellino: le aziende come stanno adattando i loro investimenti immobiliari nel dopo pandemia? Che conseguenze ha il lavoro remoto sul real estate commerciale? Da alcune ricerche sappiamo che circa la metà delle multinazionali vuole ridurre gli spazi per uffici nei prossimi tre anni. Un’indagine di Knight Frank sui dirigenti responsabili del settore immobiliare in 350 aziende in tutto il mondo ha rilevato che, tra i principali gruppi che riducono la propria metratura di uffici, il numero più elevato mira a ridurre lo spazio dal 10 al 20%. Questo ridimensionamento toccherà le abitudini di dieci milioni di persone.

“Spazio più piccolo, ma migliore, è probabilmente il mantra delle organizzazioni più grandi”, ha spiegato al Financial Times Lee Elliott, esperto di immobili commerciali di Knight Frank. Le società più grosse cercano quindi location più prestigiose, rinunciando a un po’ di metri quadrati. “Non è la campana a morto dei mercati immobiliari. Per gli immobili di prima qualità c’è un deficit di offerta, quindi un aumento degli affitti”.

Il taglio agli spazi per uffici delle grandi aziende sta suscitando invece una certa preoccupazione per il futuro di edifici più vecchi, situati in zone meno prestigiose. Allo stesso tempo, prosegue l’indagine di Knight Frank, va tenuto conto del fatto che la maggior parte delle aziende più piccole sta pianificando di espandere la metratura degli uffici. E restano parecchie aziende che, prima di muoversi, devono aspettare la fine dei loro contratti di locazione. In generale, continua Elliott, negli ultimi tre anni molte società hanno sospeso le decisioni che riguardano gli immobili, in attesa di valutare le abitudini di lavoro post-pandemia.

Un futuro ibrido

La tendenza al lavoro ibrido, con un graduale spostamento verso gli uffici, è confermata anche dalla ricerca di Knight Frank, che ha riguardato aziende di tutto il mondo in settori che vanno dalla tecnologia ai servizi finanziari. Circa un terzo delle società intervistate ha optato per un lavoro del tutto o quasi in presenza. Il 56% ha scelto una politica ibrida, mentre circa il 10% prevede di essere prevalentemente o interamente in remoto. Il risultato è che a Londra, secondo i dati di Cushman & Wakefield, le aziende occupano meno spazio rispetto alla media pre-Covid, anche se l’anno scorso c’è stato comunque un alto numero di traslochi di uffici.

Quanto al prossimo decennio, secondo uno studio di Savills, gran parte degli spazi per uffici in eccedenza si troverà in città statunitensi come San Francisco e Washington Dc. All’estremo opposto il mercato asiatico, dove l’offerta di spazio sarà rigida. L’Europa, invece, occuperà una posizione mediana. “Non si tratta solo di uffici che si svuotano perché alcune città hanno registrato livelli di ritorno al lavoro inferiori dopo la pandemia”, ha affermato Kelcie Sellers, ricercatore associato di Savills. “La questione riguarda il modo in cui le tendenze economiche, demografiche e di sviluppo a lungo termine interagiscono con i modelli di lavoro”.

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