Articolo tratto dal numero di giugno 2024 di Forbes Italia. Abbonati!
Il 1 febbraio 1979 l’ayatollah Khomeini, appena rientrato dall’esilio parigino, diventava, a furor di popolo, la prima guida suprema della Repubblica Islamica dell’Iran. A distanza di 45 anni, il suo successore, l’ayatollah Khamenei, viene contestato nelle piazze delle principali città del paese al grido di “morte al dittatore”. L’Iran e il suo leader vivono uno dei momenti di crisi più gravi della loro storia recente, tra proteste di piazza, crisi economica e rischi di conflitto con Israele o con il Pakistan. Poi, ad aggravare la situazione di instabilità, il 19 maggio il presidente Ebrahim Raisi è morto in un incidente d’elicottero in Azerbaigian.
Le proteste contro il regime degli ayatollah
Le elezioni di marzo, vinte dal partito conservatore di governo con percentuali bulgare, hanno registrato un’affluenza del 41%, dato più basso dal 1979. Nemmeno nel 2020, in piena pandemia, l’affluenza era stata così bassa. Nella capitale ha votato un cittadino su quattro e sono state contate 287mila schede bianche, il 15% del totale. L’astensionismo e la scheda bianca sono, per una buona parte della popolazione iraniana, l’unico modo per mostrare il dissenso al regime degli ayatollah. Dissenso aumentato drasticamente dopo la morte, nel settembre 2022, in circostanze mai chiarite, della giovane Masha Amini mentre si trovava in custodia della polizia iraniana.
Secondo l’associazione Foundation for Defense of Democracies (Fdd) sono morti 642 manifestanti, di cui 80 minori, a causa della violenta repressione delle proteste. A scendere in piazza sono stati soprattutto under 35, che in Iran rappresentano oltre il 50% della popolazione. Essendo nati dopo gli anni Ottanta, i giovani iraniani non hanno vissuto l’esperienza rivoluzionaria di Khomeini e non si identificano in un’autocrazia di stampo religioso. Un sondaggio dello scorso anno dimostra come il 72,9% dei cittadini intervistati sia favorevole a una separazione tra politica e religione. Inoltre, dati del ministero della Cultura indicano un calo delle moschee attive nel 2023 del 33%. A buttare benzina sul fuoco hanno pensato la svalutazione del rial, la moneta locale, e un’inflazione che nel 2023 ha raggiunto il 44%. I protagonisti delle manifestazioni degli ultimi mesi sono cittadini che non dipendono economicamente dal governo o da quell’oligopolio di fondazioni pseudo-private gestite dal clero o dai pasdaran che da anni gestisce le principali aziende statali iraniane.
Nonostante questo, secondo il World Economic Outlook del Fondo monetario internazionale, il Pil dell’Iran nel 2023 è cresciuto del 5,4% ed è previsto in crescita del 3,8% anche nel 2024. Teheran può contare, oltre che su una popolazione giovane e istruita, anche sulla ricchezza di materie prime. L’Iran è, infatti, il terzo paese al mondo per riserve di petrolio (possiede il 13,3% delle riserve globali), oltre a essere il nono produttore mondiale, e il secondo per riserve di gas (16,2%). A causa delle sanzioni occidentali, il 90% dell’export di petrolio e gas è diretto verso la Cina. Pechino, non a caso, nell’aprile 2023, è stata protagonista dello storico riavvicinamento diplomatico tra due suoi partner fondamentali: Iran e Arabia Saudita.
Se Riyad è il principale fornitore di petrolio cinese, Teheran è altresì strategica per il suo controllo sullo stretto di Hormuz, da cui passa il 35% del petrolio e il 12% del gas commerciati via mare. Di questo petrolio, circa i tre quarti sono diretti verso il mercato asiatico. Per di più, la guerra in Ucraina ha spinto Pechino a cercare una nuova via per raggiungere l’Europa, incrementando gli investimenti nella Via della Seta marittima, come ha fatto nel porto iraniano di Chabahar. La Cina, perciò, è molto interessata a una stabilizzazione dello scenario mediorientale.
Le tensioni con Pakistan e Israele
I piani del presidente Xi Jinping, però, si sono parecchio complicati in questo 2024. In primis a causa dei raid incrociati tra Iran e Pakistan nel Belucistan. Questa regione, abitata da una maggioranza di religione sunnita, è divisa tra Pakistan, Iran e Afghanistan. Agli attacchi iraniani di gennaio, contro alcune postazioni di un’organizzazione terroristica islamista in Pakistan, è seguita la risposta di Islamabad, volta anch’essa a colpire cellule terroristiche nel Belucistan iraniano.
Ben più grave la tensione con Israele a seguito della distruzione del consolato iraniano a Damasco, a cui Teheran ha risposto con un attacco di circa 300 droni e missili nella notte tra il 13 e il 14 aprile. Attacco intercettato al 99% della contraerea e dai sistemi di difesa israeliani, supportati anche dagli Stati Uniti. Washington ha cercato di frenare una pesante reazione israeliana e l’inizio di un’escalation. L’Iran, da parte sua, oltre a minacciare l’uso di armi “mai utilizzate prima”, ha ventilato il blocco dello stretto di Hormuz. Un’azione che avrebbe impatti gravissimi non solo sui contendenti. I più danneggiati sarebbero il primo esportatore al mondo di petrolio, l’Arabia Saudita, e il primo importatore, la Cina.
Perché un conflitto in Medio Oriente non conviene a nessuno
Anche per l’Iran, però, un blocco del genere significherebbe un crollo del 70% delle entrate fiscali e un buco enorme nel bilancio statale, dipendente dai 35 miliardi l’anno dall’export dell’oro nero. Hormuz è, infatti, finora l’unica via per Teheran per commerciare il suo petrolio. La chiusura di quell’arteria porterebbe al collasso l’intera spesa pubblica l’economia potrebbe non reggere, acuendo ancora di più il dissenso e le proteste contro il regime. Sarebbe la fine dell’Iran degli ayatollah. Gli Stati Uniti, seppur vedano di buon grado un cambio di regime a Teheran, non gradiscono un aumento incontrollato dei prezzi del petrolio, che rischia di far ripartire l’inflazione pochi mesi prima delle elezioni presidenziali di novembre. Arabia Saudita, Stati Uniti, Cina, Unione europea, Iran e anche la stessa Russia, che da Teheran importa droni e armi, hanno quindi un’insolita comunanza di interessi nell’evitare un conflitto in Medio Oriente e il blocco dello stretto di Hormuz.
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