“Un messaggio al mondo intero”. Con queste parole, a dicembre 2023, il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi ha commentato la sua vittoria elettorale, con quasi il 90% delle preferenze e un’affluenza record del 67%. Una vittoria arrivata, però, in uno dei momenti più critici della storia dell’Egitto moderno. Il 60% della popolazione, secondo i dati della Banca Mondiale, è considerata povera o vulnerabile. L’inflazione, seppur in calo dal picco del 35,7%, toccato a febbraio, a giugno era sempre al 27,5%, mentre quella alimentare è al 31,5% anno su anno. Un dramma per un paese che, su 21 milioni di tonnellate di grano consumate ogni anno, ne importa 13. Grano che fino al febbraio 2022 proveniva per l’86% da Russia e Ucraina.
L’impatto delle guerre
Il governo al-Sisi, per correre ai ripari, vende il pane a prezzo calmierato a 70 milioni di egiziani. Alla situazione interna già esplosiva si sono aggiunti molti shock esogeni. L’escalation israelo-palestinese ha portato centinaia di migliaia di cittadini di Gaza ai confini dell’Egitto. Il Cairo ha bloccato i confini per evitare un esodo di massa e, secondo il Wall Street Journal, sta costruendo un enorme campo profughi nel deserto del Sinai, capace di accogliere fino a 100mila persone. Altri focolai di tensione nei territori vicini sono la guerra civile permanente in Libia e quella in Sudan, che ha causato circa 450mila profughi.
Inoltre gli attacchi dei ribelli sciiti Houthi alle navi che transitano dal canale di Suez, come rappresaglia contro Israele, hanno fatto diminuire bruscamente i passaggi dal Mar Rosso. Secondo i dati dell’Autorità del Canale di Suez, a maggio il traffico navi è sceso del 53,6% rispetto allo stesso mese del 2023. Questo calo potrebbe essere un colpo mortale per le già fragili finanze statali egiziane. I pedaggi pagati della navi mercantili per il passaggio da Suez nel 2022-2023 hanno raggiunto la cifra record di circa 8,6 miliardi di dollari. Introito fondamentale per il bilancio statale, dato che le entrate totali nel 2023, secondo Trading Economics, sono state di 1.500 miliardi di sterline egiziane, circa 31 miliardi di dollari.
Le casse dell’Egitto
Un’altra conseguenza negativa della guerra a Gaza è il calo dei flussi turistici. Questo settore vale il 12% del Pil. S&P stima, per il 2024, un calo tra il 10 e 30% del turismo, che porterebbe alla perdita dello 0,8% del Pil e fino all’11% delle riserve in valuta estera. Riserve che, dopo la fuga di oltre 20 miliardi di investimenti stranieri, vengono tenute in piedi da miliardi di depositi delle monarchie del Golfo (circa l’80% del totale), senza cui il governo al-Sisi non sarebbe neanche in grado di pagare le importazioni di grano.
I paesi del Golfo, che detengono circa il 25% dei 165 miliardi di dollari di debito estero dell’Egitto, in una prima fase avevano sostenuto il governo al-Sisi per paura del diffondersi delle primavere arabe. Ora, però, non sono più propensi a un sostegno economico incondizionato e vogliono asset statali a garanzia dei loro finanziamenti. Un esempio: l’acquisto, avvenuto a marzo, da parte del fondo sovrano emiratino Abu Dhabi Development Holding Company dei diritti di sfruttamento del giacimento di Ras Al Hikma per 35 miliardi di dollari, necessari per rimpinguare le riserve di valuta pregiata egiziana. Anche l’Arabia Suadita è interessata al giacimento di Ras Giamila in cambio di investimenti per 15 miliardi di dollari.
Gli accordi con il Fmi
Il governo egiziano, poi, si è rivolto, al Fondo monetario internazionale (Fmi) per estendere la linee di finanziamenti da 3 a 8 miliardi di dollari. Finanziamento subordinato ad alcune riforme necessarie per la modernizzazione dell’economia. In primis, il Fmi ha richiesto un aumento dei tassi di interesse da parte delle Banca centrale egiziana, per combattere l’iperinflazione, e un regime di cambi flessibili per la valuta locale. Richieste subito accolte, a marzo, con un aumento del 6% dei tassi e con una svalutazione del 50% della sterlina egiziana.
La richiesta più impellente, però, è la diminuzione della presenza dell’esercito nell’azionariato delle principali aziende statali del paese, vista come il maggior freno al rilancio. Il settore più colpito è quello delle costruzioni. Un esempio è la Acud, la società che gestisce il progetto da 58 miliardi di dollari della nuova capitale amministrativa, a circa 45 chilometri da Il Cairo, controllata al 51% dall’esercito. Questa città, costruita ex novo nel deserto su circa 168 chilometri quadrati, dove si dovrebbero trasferire sei o sette milioni di cittadini, dovrebbe diventare il fiore all’occhiello del nuovo Egitto moderno e sostenibile. Al-Sisi è reticente a escludere l’esercito dal management delle partecipate statali perché sono i militari ad averlo portato al potere ai danni dell’islamista Morsi, garantendone la leadership incontrastata. Senza riforme, però, si bloccherebbero i prestiti del Fmi.
L’ingresso nei Brics
A gennaio l’Egitto è entrato nei paesi Brics, grazie all’appoggio della Cina, desiderosa di portare Il Cairo dalla sua parte. Legami commerciali più stretti con i paesi del gruppo permetteranno all’Egitto di pagare le importazioni anche in una valuta diversa dal dollaro, come yuan o rublo, diminuendone la dipendenza. Inoltre, il paese ha ora accesso al credito della Nuova Banca di Sviluppo, con condizioni molto meno stringenti di quelle poste dal Fmi. Al-Sisi, per evitare l’implosione economica e sociale, deve comunque mettere in piedi riforme che modernizzino l’economia. Solo così potrà attrarre maggiori investimenti e capitali esteri e ottenere nuovi finanziamenti del Fmi. Allo stesso tempo, in politica estera, deve cercare una soluzione diplomatica alla guerra in Palestina e lanciare davvero un “messaggio al mondo intero”. Ne va anche del futuro del suo paese.
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