“Tocca agli Stati Uniti garantire, con tutti gli sforzi possibili, la pace regionale. Un Libano ancora democratico, protetto e non in guerra è un investimento necessario per tutta la comunità internazionale. La saggezza, ma anche la convenienza politica ed economica, devono prevalere”. Fouad Makhzoumi è scettico sulle possibilità di una soluzione del conflitto tra Libano e Israele, considerato che la guerra a media intensità in corso tra Hezbollah e l’esercito israeliano va avanti dal 7 ottobre del 2023, ma quel che sa bene è che tutto questo non è una panacea né per la stabilità politica di Beirut né per l’economia libanese, già duramente provata da gravi errori istituzionali.
Il magnate libanese, nato nel 1952, è fondatore del National Dialogue Party – una forza laica, moderata e dialogante con i partiti liberali di centro-destra del Paese, nata nel 2004 – con cui è stato membro del parlamento dal 2018 al 2022. Eletto nel seggio di Beirut per la rappresentanza settaria sunnita – in un ordinamento politico che prevede l’assegnazione delle cariche dello Stato e dei seggi parlamentari in modo proporzionale alle varie comunità religiose del paese – Makhzoumi non ha mai dismesso i panni del businessman, tutt’altro.
Se nella sua elegante dimora libanese sono frequenti le cene e gli incontri con le rappresentanze diplomatiche, la stampa e i visitatori politici stranieri, il suo focus resta sempre il business: la sua Future Pipe Industries, azienda di condutture di fibra in vetro di cui è ceo, con sede a Dubai dal 1984, ha 12 stabilimenti, tremila dipendenti, un fatturato di 1 miliardo di dollari in crescita e una valutazione sulla Borsa di Dubai di 1,6 miliardi, nonostante tutto. L’azienda è forte anche della modernizzazione data dal figlio Rami, con una filosofia green e sostenibile. Il nuovo corso, iniziato nel 2003, è stato chiamato dagli imprenditori libanesi ‘The Evolution’.
“L’evoluzione, per definizione, è un processo graduale, in cui qualcosa si trasforma in meglio”, dice Makhzoumi. “L’obiettivo, fin dall’inizio, è stato sviluppare un’azienda più forte e in costante crescita, in grado di resistere ai cambiamenti del settore. Il marchio The Evolution caratterizza tutti i nostri prodotti da 20 anni: volevamo che tutti i nostri sforzi erano simboleggiati da ciò che il marchio incarna, ossia un cambiamento in meglio, attento al mercato green e alla sostenibilità. Adesso questa sensibilità è di moda, ma noi abbiamo iniziato presto e gli stakeholder hanno compreso subito la novità. The Evolution ha simboleggiato la nostra strada verso il futuro”.
Makhzoumi è anche riuscito ad arginare gli effetti della crisi economica libanese sui suoi investimenti, scegliendo di decentralizzare la produzione rispetto a Beirut “Quando sono tornato in Libano, dopo il Taif agreement nel 1992, avevo già una notevole esperienza nel mondo della grande manifattura industriale. Ma la guerra civile ci ha imposto di ricostruire il paese stabilendo regole che non proteggono gli investimenti stranieri e favoriscono il complesso sistema politico. Scegliere il Libano invece degli Emirati o dell’Arabia Saudita per business implica la conoscenza della legge, la creazione di solidi rapporti nel sistema giudiziario, per essere protetti quando serve, e l’esistenza di infrastrutture che possano facilitare la logistica della propria azienda. All’inizio l’idea era utilizzare il know how che avevo per creare opportunità di lavoro e sviluppo industriale. Ma il sistema protezionistico, qui, è più interessato a generare benefici a chi lo norma che al paese in sé. Per questo ho deciso di chiudere la mia industria nel paese e mi sento più libero: in questo modo nessuno potrà usare i miei investimenti economici come uno strumento di negoziazione politica tra i partiti. Oggi in Libano ho solo la sede legale della mia fondazione di beneficenza in campo sanitario e sociale. Ho spostato tutto in Inghilterra e mi sento molto più a mio agio così. Diversamente da Emirati e Arabia Saudita, senza un sistema giudiziario e una legge che protegga le imprese, qui in Libano non riusciremo ad attrarre investimenti stranieri consistenti. Tuttavia, spero che avremo buone possibilità di farlo, ma prima dobbiamo costruire un ambiente politico adatto”.
È un ambiente nel quale lei prevede di diventare primo ministro dopo Saad Hariri, visto che il primo ministro, secondo l’ordinamento libanese, deve essere sunnita?
Essere primo ministro è un lavoro, non un titolo o un onore. È importante capire che sarai responsabile della vita di quattro milioni di persone, tra cui bambini, donne, anziani. Ci vuole un piano di sviluppo molto preciso. Certo che potrei farlo. Ma la cosa importante è avere un piano. Per questo abbiamo bisogno di partner politici per raggiungere l’obiettivo. Li abbiamo? Certo che sì: il Renewal Block in Parlamento serve a questo e abbiamo iniziato a fare lobby per proporre un candidato per la presidenza, in modo da mettere in sicurezza il parlamento. Di certo non vogliamo un generale come è stato Michelle Aoun e non vogliamo un candidato gradito a Hezbollah. Sfortunatamente non abbiamo ancora un presidente e il sistema corrotto che abbiamo i, dalla guerra civile in poi, non incoraggia al cambiamento. Ma credo ci siano gli elementi per avere una speranza concreta.
Lei ha detto: “Una persona può avere successo, ma anche fallire: questo non cambia la sua qualità, anche nei tempi peggiori”. Lo scandalo che nel 2013 rovinò il politico inglese conservatore Jonathan Aitken e il successivo che coinvolse il candidato alla presidenza francese Francois Fillon hanno rischiato di farla cadere, ma lei è rimasto in piedi. Come ha fatto a sopravvivere in tutti questi anni mantenendo il suo business ma anche la sua reputazione? Qual è il suo segreto?
Come libanese, sono nato in questo paese e qui sono andato a scuola, ho avuto la prima formazione lavorativa, sono stato un boyscout e un giovane sportivo. Questo credo abbia forgiato il mio carattere. Certo, per avere successo, devi essere anche la persona giusta, al momento giusto, nel posto giusto. Per questo sono andato in Arabia Saudita nel 1975. Ma credo anche che sia un obbligo servire il Libano, perché la ragione primaria del mio successo è dovuta all’educazione e alla formazione che ho avuto qui. Nel 1996, quando sono tornato, ho realizzato che la competenza digitale era prioritaria. Con la fondazione abbiamo dato vita a un programma capillare e abbiamo anche trovato un modo per finanziarlo, tramite il microcredito. Considerato che il 60% degli investimenti mancanti in Libano sono su educazione e sanità, abbiamo iniziato a fornire servizi sanitari e oggi siamo una delle più grandi ong private in Libano. In tutta la storia della nostra crescita, abbiamo sperimentato sempre qualcosa di nuovo. Se non guardi avanti, se non ti rinnovi, il sistema statale libanese prenderò il sopravvento su di te, perché la burocrazia non ama l’iniziativa privata e incoraggia il clientelismo. Per questo restiamo un soggetto privato a tutti gli effetti e lavoriamo con fondi stranieri statunitensi e delle Nazioni Unite (Undp). Così possiamo aiutare i beneficiari e restiamo fuori dal circolo clientelare che ci obbliga a scambiare favori con altri soggetti politici o istituzionali locali. La chiave, dunque, è l’indipendenza.
Perché un uomo benestante come lei ha deciso anche di aprire una fondazione nel 1997 e di dedicarsi alla cura degli altri?
Per mandarmi a scuola, mia mamma chiese un prestito in denaro a mio zio. Quando vedi la famiglia lottare per offrirti un’educazione degna di questo nome, capisci che è importante. Poiché hai ricevuto molto dalla vita, grazie anche a quella prima spinta, devi restituire quello che hai avuto. Dunque, lo sento come obbligo, dovere, necessità morale. Per farlo in modo professionale, ci vuole una struttura che possa aiutarti a massimizzare questa volontà e incanalarla in un’organizzazione funzionale. Alla Fondazione Makhzoumi vogliamo aiutare chiunque abbia bisogno, non perché lo conosciamo o perché sia un nostro vicino di casa o elettore. E vogliamo farlo al di fuori di qualsiasi appartenenza politica, religiosa, comunitaria. Da quell’anno abbiamo aiutato milioni di persone e siamo orgogliosi di essere diventati parte di questo processo di empowerment delle persone e delle donne. Soprattutto delle donne. Il 70% dei beneficiari dei nostri progetti sono donne: madri, sorelle, ragazze che nella nostra società sono considerate le ancore della famiglia ma che senza un aiuto, alle volte, non possono vedere il loro talento sbocciare o la loro condizione migliorare.
Molte persone pensano che la vita dei ricchi sia necessariamente felice e che tutto si possa comprare con il denaro. C’è qualcosa nella sua vita che lei non avrà mai, per quanto si sia sforzato, qualcosa che desiderava e che non può comprare, qualcosa che non potrà mai più avere indietro?
Io vorrei avere indietro un paese dove mio figlio Remi, che ho perduto tragicamente a causa di un aneurisma celebrale nel 2011, possa ancora vivere. Con tutto il successo, con tutti i soldi che hai, se non hai una famiglia, se non hai persone da amare, non hai niente. E la perdita di mio figlio Rami, 13 anni fa, è un dolore che non sono mai riuscito a superare.
Per altri contenuti iscriviti alla newsletter di Forbes.it CLICCANDO QUI .
Forbes.it è anche su WhatsApp: puoi iscriverti al canale CLICCANDO QUI .