Dopo 1.000 giorni di guerra e il ritorno di Trump alla Casa Bianca, vale la pena fare un bilancio delle sanzioni occidentali contro la Russia e dei dazi americani contro la Cina. La cosa sorprendente è che entrambe le misure hanno in parte fallito per ragioni grossomodo simili. Hanno tentato di bloccare una certa quantità di scambi commerciali, ma la globalizzazione ha trovato vie alternative.
Che effetto hanno avuto i dazi sulla Cina
Esaminiamo prima il caso dei dazi. In America la sete di prodotti stranieri non si è per nulla affievolita. La Cina, però, non è più la fonte principale di importazioni: l’ha superata il Messico. Un cambiamento iniziato nel 2018 con i primi dazi di Trump, che Biden ha confermato, e oggi lo stesso Trump minaccia di intensificare e allargare. Il risultato, però, ricorda l’aggiramento e le triangolazioni che hanno compromesso i veti contro la Russia.
Nonostante i dazi, il deficit commerciale americano ha continuato a crescere perché le importazioni non sono affatto diminuite. Molte aziende hanno semplicemente spostato le loro produzioni dalla Cina verso altri poli manifatturieri, come Vietnam, Messico (contro cui Trump ha appena promesso nuovi dazi), Malesia, Taiwan. E per di più si è scoperto che molti beni assemblati in questi paesi terzi includevano ancora parecchie componenti cinesi.
Il gioco delle triangolazioni
Nel caso della Russia, la triangolazione è stata talmente sfacciata che gli europei le hanno affibbiato un nome: “La rotonda eurasiatica”. Mentre l’export europeo e americano verso la Russia crollava per via delle sanzioni, cresceva l’export verso l’Asia centrale, che a sua volta indirizzava molti più beni verso la Russia. In particolare, si è trattato di beni cosiddetti ‘dual use’, vale a dire impiegabili per scopi sia civili che militari. Nel 2022, anno dell’inizio della guerra in Ucraina, le esportazioni del Kazakistan in Russia sono cresciute del 401% e ci sono stati flussi analoghi in partenza da Georgia, Armenia, Kirghizistan, Uzbekistan. Poi in diversi casi gli scambi sono diminuiti perché l’Occidente ha spinto quei paesi a collaborare nell’applicazione delle sanzioni.
Ma è rimasta aperta la sponda cinese, che dà il grosso del sostegno alla macchina militare russa. La Cina non vende direttamente armi, ma fa arrivare le componenti critiche per costruirle. Il commercio tra Cina e Russia ha raggiunto i 240 miliardi di dollari nel 2023, con una crescita del 26,3% rispetto al 2022. Le esportazioni cinesi verso la Russia sono aumentate del 46,9% nel periodo 2022-2023 e del 64,2% nel periodo 2021-2023. La Cina così è diventata il maggior partner commerciale della Russia, superando l’Unione Europea. Anche in questo caso l’Occidente tenta contromisure. Gli Usa colpiscono con sanzioni secondarie banche e società cinesi che aiutano la Russia a produrre armi. Risultato: in alcuni mesi di quest’anno l’export è sceso, tornando però ad aumentare a settembre e ottobre.
Sarebbe sbagliato concludere che le tensioni geopolitiche non abbiano un impatto sulla mole degli scambi. Nuovi dazi, sussidi, controlli sui capitali e sanzioni hanno bloccato la crescita del commercio globale e degli investimenti transfrontalieri. Ma gli Stati Uniti pensano di trarre grandi vantaggi dalla politica industriale. Vogliono costruire in casa propria i settori del futuro: energia verde, macchine elettriche, chip per computer, intelligenza artificiale. Questi investimenti stanno trainando l’economia americana, la cui crescita surclassa il resto dei paesi sviluppati. Ma cresce anche il deficit, e di conseguenza il debito. Saranno sostenibili nel lungo termine?
L’enigma dell’economia russa
Quanto all’economia russa, continua a confondere esperti e analisti. Sta vivendo un boom nonostante tutte le sanzioni. È cresciuta del 3,6% nel 2023 e dovrebbe attestarsi sullo stesso livello quest’anno. La Russia è un paese in guerra, e la spinta è data dall’enorme aumento di investimenti pubblici nel campo di difesa e sicurezza. Le cose però rischiano di essere molto meno rosee di come appaiono. Un’indicazione delle difficoltà sono i tassi d’interesse tenuti altissimi dalla banca centrale. Sono stati alzati al 21% e potrebbero raggiungere il 23% alla fine dell’anno.
Come mai? Durante una guerra i banchieri centrali dovrebbero essere restii a sopprimere l’attività economica. Il problema non è tanto l’inflazione, quanto la dipendenza dalla Cina, o meglio dalle importazioni cinesi. I tassi d’interessi alti servono a non far svalutare il rublo, altrimenti il costo di queste importazioni diventerebbe insostenibile. Il rovescio della medaglia è scoraggiare consumi e investimenti privati. I fallimenti aziendali sono aumentati del 20% quest’anno, i mutui si sono dimezzati. Nonostante la mole di spesa pubblica, l’economia comincerà a rallentare in modo significativo il prossimo anno (lo riconosce anche la Veb, la banca statale russa per lo sviluppo). Ecco il punto debole di Putin: fare la guerra con tassi d’interesse al 21%, scrive l’Economist. Bisognerebbe tenerne conto al momento del negoziato.
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