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Strategia

A che punto è l’aumento delle spese militari dei paesi Nato

Articolo tratto dal numero di gennaio 2025 di Forbes Italia. Abbonati!

C’è un paradosso evidente nel movimento pacifista, spesso anti-Nato: non vuole aumentare nemmeno di un euro la spesa militare, ritenendola incompatibile con la pace; allo stesso tempo, ingigantisce la resilienza dell’economia russa, sorvolando però su un dato cruciale: la crescita (malgrado tutte le sanzioni) dipende in larga parte da investimenti statali massicci in armi e Difesa. Certo, lo statismo autoritario di Putin non è un modello da seguire e sul fronte economico i nodi verranno al pettine: un rublo svalutato sta rendendo le importazioni sempre più care e perfino i funzionari russi si aspettano una brusca frenata della crescita nel 2025. Insomma, nel lungo termine il corso attuale del Cremlino è insostenibile. Ma non è questo il punto: la Russia sta spendendo l’8% del suo Pil in difesa, all’Unione Europea servirebbe un aumento più piccolo. L’opinione pubblica, cosa comprensibile, fa resistenza: un popolo che invecchia vuole più pensioni e ospedali, non carri armati. Però le armi tolgono davvero il pane di bocca? 

In fondo si tratta di investimenti nell’industria e nella manifattura, a volte con effetti positivi nell’uso civile (ad esempio internet e il Gps). E più sicurezza oggi è imprescindibile, dato lo scenario di politica internazionale. Donald Trump è scettico circa la Nato, e in una guerra l’Europa dovrà sbrigarsela forse da sola, o con un modesto aiuto degli Stati Uniti. L’esempio più immediato è l’Ucraina: ci vorrà un gran numero di truppe europee per far valere un cessate il fuoco con la Russia. L’esercito di Mosca, per parte sua, malgrado i danni giganteschi subiti, potrebbe uscire dalla guerra “più forte di quanto non sia oggi”, ha avvertito il generale Christopher Cavoli, comandante supremo della Nato. Ma un parziale disimpegno americano non significa un abbandono. Nonostante tutto, l’establishment di Washington riconosce ancora il valore della Nato. Una cosa però è chiara: i paesi europei dovranno fare molto di più. Il primo segnale di buona volontà è spendere.

Quanto spendono per le armi i paesi della Nato

Pochi giorni dopo la vittoria di Trump, un gruppo di dirigenti e funzionari nel settore della difesa si è riunito a Praga. L’umore non era molto allegro, eppure una delle ragioni di moderato conforto era proprio il tema della spesa. Quest’anno 23 dei 32 membri della Nato stanno raggiungendo o superando l’obiettivo del 2% del Pil in spese militari (l’Italia è ancora lontana da questa soglia), più del doppio rispetto a quattro anni fa –  il target del 2% era stato fissato nel 2014 con l’annessione della Crimea da parte della Russia. E dal 2022, con l’invasione su larga scala dell’Ucraina, i budget europei sono ancora cresciuti. Secondo la Nato, le spese totali degli alleati europei per la Difesa hanno raggiunto i 450 miliardi di euro.

Lo sforzo è incoraggiante, ma non sufficiente. Secondo diversi analisti, non basta né a impressionare Trump, né a fare da deterrente alla Russia. Il nuovo segretario generale Nato, l’olandese Mark Rutte, ha già detto che il 2% è un obiettivo obsoleto. Secondo Bastian Giegerich, direttore dell’International Institute for Strategic Studies, bisognerebbe impegnarsi ad arrivare in media almeno al 3%. Alcuni già lo fanno. La Polonia supera il 4,5%, le tre repubbliche baltiche e la Grecia vanno oltre o sono vicine al 3%, il governo laburista inglese ha come traguardo il 2,5%. Altri paesi si piazzano attorno al 2%, e poi c’è un gruppo di nove ritardatari che langue nelle retrovie, tra cui Italia (ferma all’1,5%), Spagna e Canada. Con questi paesi Trump è stato sprezzante: ha detto che sono un “problema” e che per loro è a rischio l’ombrello protettivo americano. Spendere di più, in un certo senso, è un ritorno al passato, agli anni della Guerra Fredda, alla minaccia dell’Unione Sovietica, quando i paesi Nato europei avevano in media un budget militare attorno al 3% del Pil. 

Di quanto dovrebbero aumentare le spese militari

Oggi, secondo l’Economist, per tornare a quel livello bisognerebbe aggiungere 280 miliardi di dollari l’anno agli attuali stanziamenti. La Germania, ad esempio, dovrebbe aumentare di 40 miliardi le sue spese militari. Non è facile, perché l’opinione pubblica preferisce altri investimenti. Ma c’è il pungolo americano e anche i leader europei capiscono la gravità del pericolo russo – una Mosca imbaldanzita dalle conquiste in Ucraina.

“Se Putin riuscisse a ottenere una pace favorevole, il messaggio sarebbe chiaro: la violenza paga. Questo lo spingerebbe a continuare sulla strada del riarmo e, di riflesso, i paesi europei della Nato dovrebbero prepararsi a una situazione di ostilità permanente con Mosca”, spiega a Forbes Italia Alessandro Marrone, capo del programma Difesa dell’Istituto Affari Intarnazionali, think tank italiano. “La spesa per la Difesa europea quindi è destinata a crescere”. Marrone sottolinea poi che l’Unione Europea avrà un ruolo importante, ma non diretto, nella gestione della sicurezza. “La struttura per gestire operativamente la difesa collettiva resta in capo alla Nato. L’Ue, invece, si occuperà di supportare il rafforzamento delle capacità militari degli stati membri”.

A che punto è il rafforzamento della Difesa

Questo rafforzamento, in parte, è già in atto e si vede nei numeri dell’industria aerospaziale e della Difesa. Il fatturato del comparto nel 2023 è cresciuto del 10%, a quota 290 miliardi di dollari. I posti di lavoro diretti sono un milione e 27mila, quasi quattro milioni se si calcola anche l’indotto. “È occupazione altamente specializzata, con molti laureati in materie scientifiche e tecnologiche: un’eccellenza della manifattura europea”, spiega Marrone. Tra i due settori, quello della Difesa, cioè militare, è quello che è cresciuto di più: giro d’affari in aumento del 17%, occupazione +9%, posti di lavoro totali 581mila. Oltre a spendere di più, però, bisognerebbe spendere meglio. Gli esperti chiedono un maggiore coordinamento tra paesi europei per evitare sovrapposizioni e frammentazione. L’industria dovrebbe potenziare la capacità produttiva, non solo nei settori altamente tecnologici, ma anche in termini di volumi.

L’Europa, dicono gli analisti, resta carente in alcuni ambiti cruciali: missili per la difesa aerea, capacità di attacco di precisione, sorveglianza aerea e sistemi di comando e controllo. Anche con finanziamenti adeguati, servirebbero almeno dieci anni per ridurre in modo significativo la dipendenza dagli Stati Uniti. Dove si trovano i soldi per fare tutto questo? I governi hanno debiti alti e allo stesso tempo una domanda in aumento di spese sociali. Per facilitare il compito sono in discussione diverse iniziative. Si parla di destinare una parte dei fondi di coesione al settore della Difesa, emettere eurobond o escludere le spese militari dal calcolo del Patto di Stabilità. C’è anche l’idea di un fondo ad hoc da 500 miliardi di euro di cui ha dato notizia il Financial Times. Tutto per aiutare gli stati membri a investire in modo efficace e coordinato. 

L’impatto sul Pil

Ora proviamo a immaginare l’effetto che tutto ciò avrebbe sul Pil. Che tipo di moltiplicatore ha la spesa militare? Non sono affatto soldi buttati, anche se altri tipi di investimenti pubblici, in economia mature come quella europea e americana, hanno tendenzialmente impatti più positivi. Nel caso della Germania, ad esempio, uno studio della Normale di Pisa ipotizza che un aumento di 1 miliardo del budget della Difesa genererebbe una crescita della produzione interna di 1,23 miliardi di euro e seimila nuovi posti di lavoro. Lo stesso studio, però, sostiene che più spesa pubblica in protezione ambientale, istruzione e sanità darebbe risultati migliori. Questo è molto plausibile. Tuttavia, va considerato anche che la capacità militare può garantire stabilità e sicurezza, soprattutto in un contesto globale divenuto più ostile. L’ultimo punto: una spesa militare alta non è incompatibile con un’economia in salute. Il picco del budget del Pentagono è stato negli anni ‘50, ed era anche un’epoca d’oro del capitalismo americano.  

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