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La storia dei Roy Roger’s, i primi jeans made in Italy (e citati ne “Gli Anni” degli 883)

Articolo tratto dal numero di marzo 2025 di Forbes Small Giants. Abbonati!

Era una domenica pomeriggio del ‘96 quando, accendendo la radio, un 15enne Niccolò Biondi sentì distrattamente per la prima volta la voce di Max Pezzali che citava i Roy Roger’s nella canzone Gli anni. “Lo ricordo bene, era poco prima di pranzo. La radio passò questa canzone, l’ultimo successo degli 883, e noi tutti in famiglia ci guardammo negli occhi chiedendoci se avessimo sentito bene. All’epoca non c’erano Youtube né Spotify, dovemmo aspettare di risentirla per esserne sicuri. Fu una sorpresa incredibile”.

La storia

Gli anni è entrata nella storia della musica italiana, gli 883 sono tornati sulla cresta dell’onda grazie alla miniserie tv Hanno ucciso l’uomo ragno su Sky, e Niccolò Biondi è oggi alla guida di un’azienda – la Manifattura 7 Bell di Campi Bisenzio, alle porte di Firenze – che con il brand Roy Roger’s fattura 30 milioni di euro e dà lavoro a oltre 30 dipendenti. Eppure non tutti sanno che il marchio di abbigliamento Roy Roger’s – fondato nel Dopoguerra da Francesco e Mario Bacci – è stato il primo jeans made in Italy, ispirato allo stile di vita americano e agli abiti da lavoro, e realizzato con denim statunitense. Se negli anni Cinquanta iniziarono a diffondersi nel nostro Paese, fu nei due decenni successivi che diventarono un capo cult, fino a essere portati a esempio degli “anni d’oro del grande Real” da Max Pezzali.

Il legame tra Roy Roger’s e la canzone degli 883

“Il legame tra il nostro brand e la canzone degli 883 è stato fortissimo sin dal momento in cui il brano è andato in onda per la prima volta”, racconta Biondi. “All’epoca il brand non possedeva la forza distributiva che ha oggi, non aveva un simile appeal nel settore della moda casual. Oggi si trova in negozi d’alta fascia, ma alla metà degli anni Novanta eravamo ancora agli albori della transizione voluta da mio padre Fulvio. Fu lui a scommettere sulle potenzialità del marchio, e trovarci all’improvviso citati in un cavallo di battaglia di una band che tuttora desta molto interesse, e che piace anche ai giovani, è per alcuni versi una certificazione della nostra storia. Per suggellare il sodalizio con gli 883, più volte abbiamo incontrato Max Pezzali: l’ultima volta è stata due anni fa nel backstage del suo concerto a Firenze, e posso dire che raramente si incontrano persone così umili, nonostante un successo enorme e multigenerazionale”.

Già, perché la canzone è arrivata nel ’96, proprio quando Fulvio Biondi portava avanti la scommessa di far entrare Roy Roger’s nel fashion, non solo nelle jeanserie, con una distribuzione più alta, facendo sbarcare il denim nel casual più elegante. “In quel periodo il denim non entrava in quel tipo di negozi”, ricorda Niccolò, che oggi guida l’azienda insieme al fratello Guido, direttore creativo, e alla madre Patrizia, presidente del gruppo. “Mio padre ha fatto tanti sacrifici e sentito tanti no, ma ha saputo andare oltre, superando lo scetticismo dei buyer e dei negozi. Ma quando hai una storia da raccontare lunga tre generazioni, hai anche uno storytelling che desta interesse”.

Il brand

Se la canzone ha contributo a dare un impulso al mondo Roy Roger’s, dopo la prematura scomparsa di Fulvio Biondi i due figli hanno traghettato il brand nel nuovo millennio. “Siamo andati oltre l’impronta di mio padre, pur partendo dalla sua visione”, dice Niccolò. “Con me e mio fratello, l’azienda ha accelerato su una strada nuova, puntando sia sul brand che sul prodotto in sé. Se prima Roy Roger’s era accostato solo al denim, oggi questo pesa non oltre il 40%, mentre il 60% è dato da maglie, felpe, giubbotti in pelle e persino costumi da bagno”.

Oggi il brand è presente in oltre 1.000 negozi, più quattro monomarca (Bologna, Firenze, Forte dei Marmi, Padova) e un quinto in apertura. Negli ultimi anni l’azienda ha acquisito il brand Amish, per un target più giovane, mentre è nata la linea Roy Roger’s Worker ispirata al mondo del lavoro, attingendo anche a un archivio storico con 70 anni di modelli. Non a caso, il claim è sempre stato ‘Non c’è futuro se non hai una vera storia’.

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