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19 dicembre 2025

Dalla provincia alla National Gallery di Londra: Giorgio Locatelli si racconta tra cucina, arte e successo

Lo chef racconta la sua filosofia tra creatività, esperienze internazionali e una visione della cucina fondata su libertà e felicità.
Dalla provincia alla National Gallery di Londra: Giorgio Locatelli si racconta tra cucina, arte e successo

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Dalla provincia di Varese alle cucine stellate di Londra, la sua è una storia di curiosità, coraggio e autenticità. Figura tra le più stimate della gastronomia internazionale, Giorgio Locatelli ha saputo trasformare la cucina italiana in un linguaggio universale, fatto di emozione e semplicità. Oggi, con il nuovo progetto alla National Gallery di Londra, unisce arte e sapore in un dialogo che celebra la cultura mediterranea e il valore umano del cibo, continuando a credere che la felicità conti più del successo.

Chef Locatelli, quanto costa oggi aprire un’attività di questo tipo alla National Gallery? 

Il progetto della National Gallery mi è piaciuto tantissimo. L’investimento relativo all’interior design e alla costruzione del locale era completamente a carico loro. Noi dovevamo solo occuparci della gestione del servizio, dei piatti e delle forniture, quindi questo ha semplificato molto le cose. Quanto costa aprire un ristorante oggi dipende molto dalla location: se sei in montagna, in Abruzzo, non costa tantissimo. Se sei in centro a Londra, invece, parliamo di milioni di sterline. È diventato praticamente impossibile per i giovani intraprendere questo tipo di esperienze senza indebitarsi pesantemente.

Il vantaggio, quindi, è stata anche la fiducia riposta nel vostro prodotto? 

Assolutamente. Loro hanno investito su di noi perché conoscevano la nostra esperienza e sapevano il valore del nostro lavoro. Al di là di questo, mi piacciono i locali che crescono gradualmente, che partono piccoli e si evolvono nel tempo. È ciò che è successo a me: ho cominciato con l’Olivo, 30 coperti, poi con lo Zafferano e infine con la Locanda, diventata il nostro fiore all’occhiello. Certo, quello della ristorazione è un business proibitivo e rischioso. Due ristoranti su cinque chiudono entro un anno, soprattutto a Londra. Serve qualcosa di magico: non solo cucinare bene, ma anche arrivare al momento giusto, nell’ambiente giusto. Sono tanti i componenti che determinano il successo.

Oggi i giovani hanno spazio per emergere nella cucina, secondo lei?

I giovani hanno un grande vantaggio: cinque anni di scuola alberghiera che insegnano non solo cucina e sala, ma anche i modelli di business. Arrivano nel settore già con una certa maturità. Il problema è l’alto drop out: il 50-60% lascia il settore entro due-tre anni per gli orari proibitivi, gli stipendi bassi e i costi di vita troppo alti nelle grandi città.

Cosa dovrebbero fare secondo lei?

Devono seguire le loro passioni e costruirsi una carriera. Non bisogna aspettarsi il successo immediato: quando ho iniziato, gli chef di partita avevano oltre 40 anni. La cucina è un percorso lungo e vasto, e anche dopo decenni c’è sempre qualcosa da imparare. I giovani non sono pigri: lavorano con grande impegno. Il mio consiglio è acquisire esperienze diverse, anche internazionali. Viaggiare insegna molto, perché la cucina è fatta di persone, oltre che di ingredienti.

Aprire un ristorante alla National Gallery è stato per lei un modo per uscire dalla comfort zone? 

La Locanda era un destination restaurant: selezionava già naturalmente i clienti e la loro spesa media era alta. Alla National Gallery siamo un service restaurant: dobbiamo servire chi visita le gallerie. Mi ha appassionato il fatto che la National Gallery abbia scelto di offrire un’esperienza italiana in un bastione della cultura inglese. È un complimento al mio team, ma soprattutto alla cucina italiana, ormai internazionale e riconosciuta per qualità e prodotti artigianali.

Oggi la cucina italiana dovrebbe aprirsi al mix con altre cucine?

Sì. I migliori piatti degli ultimi anni sono nati dalla fusione di culture diverse. La vincitrice di MasterChef dell’anno scorso, ad esempio, ha saputo fondere la sua indole cinese con la tradizione italiana. Il futuro della cucina italiana è questo: capace di confrontarsi e miscelarsi con altre cucine. Non significa tradire la tradizione, ma puntare alla qualità.

Lei è stato uno dei primi chef italiani a trasferirsi a Londra, nel 1986. Che atmosfera c’era allora e quanto ha influito su di lei?

Vengo da Corgeno, un paesino di mille abitanti. Londra era incredibilmente inclusiva: parlare con un accento italiano era considerato ‘sexy’. Ho cercato di stare lontano dagli italiani per imparare l’inglese rapidamente e integrarmi. Ho conosciuto artisti, musicisti, gente creativa. Vivevamo alla giornata, con grande libertà, e questo mi ha formato sia come persona, sia come chef.

Quanto conta il coraggio e la curiosità per chi vuole emergere?

Molto. Devi avere la capacità di affrontare solitudine e difficoltà, essere curioso, aprirti agli altri. Quando sei giovane, queste esperienze ti formano e ti aprono la mente. Oggi, purtroppo, molti ventenni non vivono più così. In cucina, questa apertura è fondamentale per innovare.

La passione per la MotoGP e i viaggi in moto ha influito sulla sua vita e sulla sua cucina?

La moto dà una sensazione di libertà incredibile, ti insegna a osservare il mondo e a viaggiare. I viaggi mi hanno insegnato la cucina più semplice e autentica. In Andalusia, ad esempio, ho mangiato una zuppa di pomodoro e pane che mi ha fatto capire cosa voglio fare nella mia cucina: soddisfazione e convivialità, senza bisogno di formalità o argento.

Come mantiene, a 62 anni, la capacità di sorprendersi e trasferire emozione nei piatti?

È frutto di 40 anni di esperienza. Con il mio team, anche nuovo, condivido idee, ricette e confronto. Quando qualcuno prende una mia ricetta e la migliora, è una grande soddisfazione. Vorrei che tutti i miei collaboratori avessero due o tre stelle Michelin: sarebbe la mia più grande vittoria.

A MasterChef lei appare come il più cortese dei giudici. È così anche in cucina? È necessario oggi ‘gridare’ in cucina per essere autoritari?

Un tempo lo chef si chiamava abbayeur. Doveva ‘abbaiare’ per coordinare la cucina. Oggi la tecnologia ha semplificato molto il lavoro e il livello di civiltà in cucina è cresciuto. Ma c’è una cosa che ho sempre odiato: l’umiliazione. Da chi umilia non impari nulla. Insegnare significa guidare con rispetto: c’è sempre un modo di correggere senza ferire.

Che cosa significa per lei raggiungere il successo?

Il successo non significa niente se non sei felice. È la felicità che conta, non il successo.

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