I numeri parlano chiaro: il pianeta Terra entrerà presto in una nuova fase. A metà di questo secolo, in tutto il mondo, le morti cominceranno a superare stabilmente le nascite. Questo nuovo scenario avrà conseguenze enormi, dal punto di vista economico, sociale e geopolitico. I governi hanno tre frecce al loro arco: far crescere la produttività del lavoro grazie alla tecnologia, incoraggiare l’immigrazione, provare a sostenere le nascite. E in America stanno nascendo startup che hanno costruito business da centinaia di milioni di dollari attorno all’infertilità e all’ingegneria riproduttiva.
Pochi anni fa il dodicenne Jeong-su, un bambino alto, disciplinato e timido, giocava tutte le mattine a calcetto nel cortile della scuola, un edificio di legno a due piani piazzato su una collina erbosa della campagna sudcoreana. Oggi, invece, la sua ricreazione consiste in qualche scambio a ping pong con l’insegnante di classe. Non un cataclisma improvviso, bensì il mesto destino demografico degli istituti rurali. Jeong-su è l’ultimo alunno della sua scuola, che chiuderà quando anche lui avrà superato l’esame di fine anno. Una storia non così insolita nella provincia coreana. La gioventù svuota i villaggi per migrare nelle grandi città. Seul, la capitale, continua a crescere, drenando abitanti dal resto del paese. Ma i piccoli centri urbani che si dissolvono al rallentatore – tipo Nogok (dove è nato Jeong-su) che ha perso la scuola, la banca e l’ufficio postale – sono la punta dell’iceberg di un fenomeno più generale, che tocca l’intera nazione.
I diciottenni sudcoreani, negli ultimi trent’anni, si sono quasi dimezzati. E i bambini sono così rari che li si accoglie alla stregua di apparizioni divine. Le autorità sanitarie li inondano di regali come vestiti e giocattoli, ma anche bocconcini di carne pregiata. Il governo tenta le mamme con assegni alla famiglia, bonus, cure per l’infertilità e trattamenti post parto in splendido comfort. Per risvegliare le nascite sono stati spesi, dal 2006, l’equivalente di 171 miliardi di euro in soldi pubblici. Ma il dio della gravidanza diserta il Paese. La situazione – ha ammesso sconsolato il vice primo ministro Hong Nam-ki – sembra culturale e permanente. Nel 2019 la media era meno di un figlio per ciascuna donna sudcoreana, primato planetario in quanto a cautela nel riprodursi. Così la Corea del Sud condivide insieme al Giappone la percentuale più bassa al mondo di persone tra zero e 14 anni. I giapponesi sono anche i più vecchi, con il 28,4% che è over 65. La seconda nazione più attempata è l’Italia, a seguire il Portogallo. Ma perché all’improvviso è utile questa sfilza di dati demografici?
I numeri dello spopolamento
La demografia è destino, e ce lo hanno ricordato gli ultimi censimenti in Cina e Stati Uniti, le due superpotenze economiche della Terra. Tutte e due hanno visto crescere la propria popolazione al ritmo più lento da decenni a questa parte. Quella cinese fra non molto raggiungerà il suo picco, poi inizierà a contrarsi. Più morti che nascite. E come una valanga, queste forze demografiche sembrano espandersi e accelerare in gran parte del pianeta. Entro la seconda metà del secolo, o forse anche prima, il numero di abitanti globale entrerà in una fase di persistente declino. Un ribaltamento vertiginoso con pochi paragoni nella storia.
Ecco alcuni numeri pubblicati l’anno scorso su The Lancet, una delle più autorevoli riviste scientifiche: l’unica nazione, tra quelle oggi più popolose, che dovrebbe crescere in modo incredibilmente robusto è la Nigeria: + 284%, cioè quasi 800 milioni di abitanti alla fine del secolo. I cinesi si dimezzeranno, a quota 732 milioni. I giapponesi scenderanno a 60 milioni, la metà. I russi si ridurranno quasi del 30 percento, a 106 milioni. Gli indiani del 21%, a 1 miliardi e 90 milioni. Il Brasile calerà del 22 percento. Gli abitanti del Bangladesh potrebbero diventare la metà. Cosa che quasi certamente accadrà anche all’Italia, alla Corea del Sud, al Portogallo, alla Polonia, alla Spagna e alla Tailandia. Questo nuovo scenario, già nei prossimi decenni, avrà conseguenze enormi, dal punto di vista economico, sociale e geopolitico.
Da una parte meno pressione sulle risorse naturali, quindi benefici per l’ambiente. Dall’altra, una miscela socialmente esplosiva: bassa fertilità e vite più lunghe aumenteranno la mole di pensionati, riducendo il numero di abitanti in età da lavoro. Entrerà quindi in crisi il pilastro su cui sono organizzate le società di oggi, e cioè un surplus di giovani che manda avanti l’economia e aiuta a pagare i conti degli anziani. Fuorché in Africa Subsahariana (la cui popolazione triplicherà entro il 2100), i tassi di fertilità sono in calo ovunque. Il meccanismo è più o meno sempre lo stesso: nei Paesi cresce il benessere, per le donne ci sono più istruzione e lavoro, aumenta l’uso di contraccettivi. Poi nelle metropoli la vita diventa competitiva e i figli una specie di investimento da maneggiare con cura. I genitori ritardano la gravidanza e nascono ancora meno bambini. La piramide della popolazione piano piano si ribalta.
Anche la Cina verso il calo demografico
In Cina la forza lavoro è in caduta libera, meno 40 milioni negli ultimi dieci anni, e nel frattempo lievitano i sessantenni. Le previsioni dicono che forse arriveranno al 33% nel 2050, un terzo degli abitanti. L’invecchiamento si preannuncia letale per il fondo pensioni, che potrebbe restare senza un quattrino nel giro di quindici anni, spiega l’Accademia cinese delle scienze sociali. E così il governo si trova davanti a un tormentato crocevia: dovrebbe aumentare l’età pensionabile (oggi molto bassa: 60 anni per l’uomo, tra 50 e 55 per le donne), ma temporeggia. Ha seppellito la politica del figlio unico e ha preso a distribuire sussidi a chi resta incinta di nuovo. Si aspettava una primavera delle nascite, ha ottenuto l’inverno della sterilità.
C’è un miscuglio di ostacoli difficili da rimuovere. Di sicuro l’aumento pazzesco delle spese per case e istruzione; poi l’agonismo professionale e l’ansia della vita moderna. Fatto sta che il Paese sembra irremovibilmente poco fecondo. Il tasso di fertilità della Cina, 1,3 figli per donna, è più o meno lo stesso del Giappone e ben al di sotto dei 2,1 necessari per mantenere stabile una popolazione. Un’altra strada potrebbero essere i migranti, ma la Cina non ne accetterà mai più di tanti, perché vuole restare omogenea (come del resto il Giappone). Così, però, si rischia di perdere dinamismo, dice James Liang, imprenditore e docente di economia all’Università di Pechino. Secondo lui è più efficace il metodo dell’apertura, e per questo gli Stati Uniti sono in vantaggio: nei prossimi dieci o vent’anni, ha detto Liang all’Economist, “noi cinesi continueremo a fare bene, ma poi l’America riprenderà la leadership e la Cina non recupererà mai più”.
Omogeneità vs. multiculturalismo
Gli Stati Uniti in effetti sono l’unico grande paese (oltre alla Nigeria) che arriverà alla fine del secolo con più abitanti rispetto a oggi. Ma a una condizione, specifica la rivista Lancet: devono essere mantenute politiche favorevoli all’ingresso di migranti. Sono linfa vitale, soprattutto per la forza lavoro. Che, per l’appunto, in America cresce: nel maggio 2020 ha toccato quota 207 milioni, il record di sempre. Il modello scelto dagli Usa è quello della grande democrazia multiculturale. Dinamica, innovativa, ma con potenziali elementi di instabilità. La transizione demografica va gestita bene. Basta un solo dato per capirlo: i bianchi a metà del secolo finiranno in minoranza. E già oggi questo crea attriti notevoli, con il partito repubblicano sempre più paladino dell’identità bianca, a cui però si contrappongono altre forti spinte identitarie, quella nera ad esempio. Convivere sarà una sfida entusiasmante, ma non semplice.
Giappone e Cina non hanno di questi problemi. Sono omogenei nella razza e vogliono rimanerlo, aprendo poco o nulla all’immigrazione. Il Giappone, in particolare, è il laboratorio di una sfida che, col tempo, riguarderà molti altri Paesi. È anziano, ricco e con abitanti in calo vertiginoso. Ogni giorno, in media, ci sono mille decessi per ogni bambino che nasce; e ormai da anni si vendono più pannoloni (per incontinenti) che pannolini. I 65enni sono un terzo del Paese e nel 2050 dovrebbero raggiungere il 40%. Per quella data la popolazione in età da lavoro sarà scesa di 24 milioni rispetto ad oggi.
Il ruolo dei robot
Se vuole pochi immigrati, il Giappone deve provare ad affidarsi a robot e intelligenza artificiale. L’unico vero modo per far crescere la produttività di una forza lavoro che si contrae. Del resto la natura del Giappone lo rende forse tra i Paesi più adatti a percorrere questa strada. Ha una familiarità culturale notevole con l’automazione, di cui è stato uno dei grandi pionieri. Nel 1995 produceva più della metà dei robot usati nel comparto industriale in tutto il mondo. Ed è stato un vantaggio: la produttività della manifattura giapponese è triplicata dal 1970. Ne hanno beneficiato enormemente settori come elettronica e automobili. Poi l’evidenza empirica ha anche dimostrato che l’automazione non ha tolto lavoro. Anzi, ha dato più impieghi e salari più alti. Insomma, le macchine sono viste come forze amiche: basta ripensare a uno dei cartoni animati più famosi: il gatto robot Doraemon, che aiuta l’impacciato Nobita Nobi a costruirsi un futuro migliore. Non è semplice, però, uguagliare l’intuito dell’essere umano.
In una fabbrica di Asahikawa, dove circa il 60% del lavoro è automatizzato, gli operai sbucciano ancora le zucche. Una parte della pelle va lasciata perché esalta il sapore dello stufato, e i robot non riescono a farlo. Come non riescono a fare molte altre cose. C’è un albergo nel sud del Paese aperto in gran fanfara con l’idea di essere gestito completamente da androidi. A malincuore metà dello staff è stato licenziato. I robot erano camerieri goffi e invadenti. Scambiavano il russare degli ospiti (e altri rumori intimi) per richieste d’aiuto; accorrevano premurosi sull’uscio delle stanze, interrompendo o svegliando a seconda dei casi. Alla reception troppe domande li mandavano in tilt. Oggi l’albergo pullula ancora di robot: alcuni non fanno nulla, altri svolgono attività semplici e di routine; il resto delle mansioni è prerogativa di camerieri in carne e ossa. Ed è normale che sia così: all’infuori della manifattura, l’intesa con le macchine è più difficile. Come ad esempio dimostrano le auto a guida autonoma – che regolarmente si schiantano contro qualche albero o muretto della California.
Non c’è dubbio, però, che l’intelligenza artificiale e il machine learning abbiano fatto progressi enormi. Alimentano motori di ricerca e assistenti vocali, suggeriscono risposte via e-mail, sbloccano gli smart phone riconoscendo i proprietari e controllano in modo implacabile le facce di chi varca alcuni confini nazionali. Ma è altrettanto vero che molte delle più grandi evoluzioni promesse dall’intelligenza artificiale non sono ancora realtà. Il professor Geoffrey Hinton, guru del settore, nel 2016 consigliava ai giovani di non specializzarsi più in radiologia, perché le macchine avrebbero preso il sopravvento. È accaduto il contrario. Negli ospedali in giro per il mondo i radiologi non sono mai abbastanza. Computer super intelligenti non li hanno resi obsoleti, come non hanno rimpiazzato i camionisti.
Il Giappone quindi deve rassegnarsi: l’AI renderà più produttivi i lavoratori, ma non li sostituirà – perlomeno non nel prossimo futuro. Ma potrebbe almeno aiutare nuove coppie a incontrarsi? È questa l’ultima trovata delle autorità giapponesi: risvegliare le nascite con una specie di Tinder alimentato dai più recenti sviluppi dell’intelligenza artificiale. Le prefetture locali lo stanno testando, con risultati appena discreti; vicino a Tokyo, dodici matrimoni in un anno, il 2020; e ora si spera in un’abbondante infornata di eredi. Ma è un percorso a ostacoli: dai trent’anni di età in poi le coppie sono meno feconde.
Previeni e congela
Nelle grandi città americane, soprattutto quelle costiere – tipo New York e San Francisco – le donne fanno il primo figlio tra i 31 e 32 anni, e si calcola che fino al 15% delle unioni eterosessuali sperimenti problemi di infertilità. Mano nella mano affronteranno insieme un estenuante circuito di esami, contro-esami, test, inseminazioni – che tante volte fallisce e si conclude magari con l’acquisto di un cane. “È un mercato gigantesco, una miniera di soldi”, ha pensato nel 2012 l’imprenditore del tech Martin Varsavsky, che all’epoca aveva 51 anni e provava ad avere un figlio dalla moglie Nicole, sulla trentina. Capì che il suo target erano le donne in carriera, ambiziose e istruite che popolano le città americane. Pensò: vorranno un figlio prima o poi, e i loro ovociti non saranno quelli freschi di una ventenne. La chiave è prevenire, quindi congelare. Ecco, in sintesi, il metodo Prelude, la società fondata da Varsavsky con un finanziamento iniziale di cento milioni di dollari. Un servizio in quattro fasi: congelamento di ovociti e spermatozoi, test genetici, creazione e poi inserimento di un unico, selezionatissimo embrione.
In America è tutto un pullulare di startup di questo tipo, che servono un mercato dal valore di centinaia di migliaia di dollari. Prelude ha concorrenti agguerriti che congelano uova, come Kindbody ed Extend Fertility. Per surclassarli, Varsavsky progetta la mossa definitiva, una macchina che chiama NaturaLife, ed è un ‘laboratorio di embriologia in scatola’ alimentato da robotica, bio-chip e intelligenza artificiale. Ha il sostegno di alcuni dei più grandi nomi della Silicon Valley; perché, come dice Varsavsky, “se vuoi raccogliere soldi per idee folli, l’America è il posto giusto”.
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