Steve Jobs, Luciano Benetton, Vishal Garg, Howard Schultz, Jack Dorsey sono solo alcuni dei ceo che potremmo definire boomerang ceo, oppure ceo di ritorno. Sono infatti accomunati dallo stesso destino: dopo essersi allontanati (o essere stati allontanati) per i motivi più svariati dall’azienda che hanno guidato per anni, sono tornati alla loro guida. In Apple, in Benetton, in Better.com, in Twitter e da ultimo in Starbucks, dove per l’appunto Schultz è tornato come ceo ad interim per la terza volta, sostituendosi a Kevin Johnson che dovrebbe rimanere come dipendente e “consulente speciale” fino a settembre.
Un fenomeno, quello dei boomerang ceo, che ha riguardato e riguarda tantissime aziende di alto profilo. Oltre a quelle già citate, anche Google, Dell, Yahoo, Procter & Gamble, Reddit, Bloomberg e altre sono andate in questa direzione.
Ma cosa implica una scelta del genere per un’azienda? Si tratta di una decisione che la avvantaggia davvero o a lungo andare rischia di comprometterne il business o di ledere la cultura aziendale? E cosa comporta in termini di leadership?
Ne parliamo con Leonardo Dri, consulente, formatore e specialista in dinamiche di leadership. Autore, tra l’altro, del libro Chi comanda qui? – La scienza della leadership per guidare il team e l’organizzazione al risultato, in uscita a maggio per Flaco Edizioni Group.
I vantaggi di un ceo che torna in azienda
“Innanzitutto la leadership è una competenza comunicativo-relazionale, un leader è colui/colei che guida e per farlo deve avere quelle competenze tali per cui le persone lo seguano. Il vantaggio di chiedere a un ceo di tornare è in primo luogo che si ha a che fare con una figura che rappresenta la storia dell’azienda. È facile, infatti, per un collaboratore o dipendente, seguire una persona con queste caratteristiche, che ha dato quindi un’impronta forte. Comunicare una scelta simile a dipendenti e manager, poi, può generare una sorta di sollievo e far stare bene le persone. Il pensiero ricorrente infatti può essere: ‘Visto che quando c’era lui le cose andavano bene, adesso che è tornato, riprenderanno ad andare bene’”.
Anche perché, come abbiamo visto con gli esempi citati, si tratta di leader che hanno dato del valore all’azienda e che per le loro qualità, di fatto già note, possono rassicurare sul fatto che l’azienda torni in carreggiata. E lo faccia in breve tempo.
“Ma non solo”, aggiunge Dri, “è anche una questione di carisma. Per chi non ha conosciuto il leader fondatore, o una persona che è stata tantissimi anni alla guida, questa assume quasi dei connotati mitologici. Quando, infatti, una persona non è presente è più facile creare una narrazione positiva, ricordare solo le cose che piace ricordare. Questa figura viene un po’ ammantata di mito, mistero, magia. In un certo senso è una profezia che si autoavvera: visto che ci si aspetta che con il suo ritorno tutto in azienda funzionerà bene, come dipendente o collaboratore, sono più propenso ad accogliere le sue critiche e richieste di miglioramento. Cosa che invece non accadrebbe facilmente se arrivasse un capo da fuori e magari da un settore differente. Nel caso di Starbucks, per esempio, Schultz è stato importante per l’azienda, le ha dato una cultura caratteriale, ecco perché i dipendenti possono essere più ben disposti, coinvolti e lavorare meglio. Quantomeno nella prima fase. Perché poi arrivano gli effetti collaterali”.
Gli svantaggi della “relazione di ritorno”
Se una persona ha infatti abbandonato l’impresa o è stato allontanato, come era successo a Steve Jobs, sicuramente dietro c’è un motivo che non può essere trascurato. Neanche se il ceo che ritorna ha una leadership forte.
“Se il leader ha scelto di andarsene perché non era più allineato con il board o aveva bisogno di una pausa, il fatto di essere reintegrato richiede continuità rispetto alla gestione precedente e allo stesso tempo ci si aspetta che vada in tale direzione”.
Diverso è invece il caso di un leader che è stato mandato via. “In una situazione simile dovrà dare un’impronta nuova, dimostrare di essere cambiato e giocare una scelta di discontinuità rispetto al passato. Probabilmente il board è mutato rispetto a quando era leader, ecco perché dovrà dimostrare un’evoluzione e di avere investito, nel frattempo, su un certo tipo di competenze. Ma la vera domanda che dovremmo farci è: ha senso questa relazione di ritorno? Molto spesso è dettata dall’ego, com’è stato il caso di Benetton rientrato perché i figli, dal suo punto di vista, non erano in grado di gestire l’azienda. Ma Benetton, quando rientra, non vede un aspetto importante: sono le sue scelte fatte negli anni ‘80 e ‘90 ad avere portato in crisi l’azienda. Una persona di 80 anni, infatti, che si pone come salvatore, si trova a replicare dei pattern di comportamento che sono obsoleti”, chiosa Dri.
Anche per quel che riguarda il ritorno di Steve Jobs non è stato tutto rose e fiori. “Jobs nelle ultime direzioni che ha dato ad Apple, per esempio, non era a favore di Siri e l’azienda l’ha comprata contro la sua volontà”, precisa l’esperto di dinamiche di leadership. “Lui stesso ne rallentò clamorosamente lo sviluppo, a qualche anno dalla sua morte si è invece visto che il risultato è stato ottimo. Cosa significa questo? Che non perché una persona sia carismatica sappia prendere le decisioni giuste”.
L’errore di mitizzare il ceo
Chiedere, inoltre, a un ceo di tornare a farlo può avere altri aspetti negativi come per esempio il fatto di non essere all’altezza di un mercato che è cambiato e delle nuove sfide che si devono affrontare. O ancora, essere la dimostrazione che in un’azienda non si è stati in grado di pianificare in modo strategico la sua successione.
Ma non solo: a volte dipende proprio dal ruolo che si dà al ceo come precisa ancora Dri: “Spesso tendiamo a mettere una grande enfasi e ad attribuirgli dei connotati da superuomo. Il leader deve dare la vision, ha l’intuizione, ma non è tutto. Quello che dovremmo chiederci è invece: ‘L’azienda abilita le intuizioni delle persone a emergere e a essere tradotte in progetti?’. Se guardiamo a Google la risposta è sicuramente sì, l’azienda è cresciuta in maniera spaventosa e questo perché ha sempre fatto sua una innovazione diffusa (Google permette ai propri dipendenti di dedicare delle ore lavorative a progetti personali che poi si rivelano di successo, ndr)”.
Il fenomeno del “boomerang ceo” nasce perché si va, invece, in una direzione opposta: “Si punta sul ceo carismatico perché si vuole identificare l’azienda con quella persona – basti pensare a Elon Musk o Richard Branson – e si hanno quindi delle aspettative eccessive. Si rischia di mitizzare ancora di più un leader costringendolo a essere un forte traino e accentrando su di lui tutta la responsabilità. Quando, invece, la responsabilità di un’azienda dovrebbe stare in tutte le persone che ne fanno parte e nel loro modo di interpretare la cultura aziendale. Dal mio punto di vista”, conclude Dri, “il boomerang ceo è una stortura, non una cosa desiderabile”.
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