Di Carlo Altomonte, associate dean e direttore Pnrr Lab, SDA Bocconi
Il 2023, per varie ragioni, sarà un anno di transizione dal punto di vista del ciclo economico. Dopo la ripresa post-pandemica, e la crisi energetica provocata dalla guerra in Ucraina, le principali economie hanno sperimentato nel corso del 2022 un’elevata inflazione, che ha provocato una violenta salita dei tassi di interesse da parte delle banche centrali.
Al contempo, sempre nel 2022, i governi hanno continuato a sostenere la domanda aggregata: negli Usa indirettamente, con l’effetto di trascinamento del piano monstre di Joe Biden di 1.900 miliardi di dollari approvato nel 2021. In Europa, con una serie di misure di supporto a famiglie e imprese rispetto al rincaro dei prezzi energetici, per un totale di oltre 600 miliardi di euro. Tutto questo non ha evidentemente giovato all’inflazione, che oltre alla componente legata ai prezzi energetici è aumentata, sia in Usa che in Europa, anche (e soprattutto, negli Usa) nella sua componente core legata alla domanda di beni e servizi.
2023, l’anno in cui nodi verranno al pettine
Il 2023 si presenta come l’anno in cui questi nodi verranno al pettine. Guardando all’Europa, registriamo un’inflazione in calo grazie alla riduzione dei prezzi internazionali dell’energia. Ma, in ogni caso, il livello generale dei prezzi, sia pure non in crescita eccessiva, è comunque più elevato di prima per l’inflazione cumulata nel corso del 2022, a fronte di salari che sono cresciuti in misura limitata. Anche i prezzi dell’energia si assesteranno su un valore che, nella migliore delle ipotesi, sarà pari a circa tre volte la media storica di cui l’Europa ha beneficiato nell’ultimo decennio.
Al contempo la reintroduzione a partire dal 2024 delle regole di finanza pubblica europea, che sia pur riformate continueranno a prevedere il tetto del 3% sui deficit pubblici nazionali, comprimerà la capacità di spesa discrezionale dei Governi nazionali. Con tassi che resteranno elevati e uno stimolo fiscale progressivamente ridotto, è dunque possibile immaginare una frenata del ciclo economico per l’Europa nel corso del 2023.
La situazione per l’Italia
Per paesi come l’Italia, storicamente caratterizzati da bassa crescita e alto debito, la combinazione di un’inflazione in calo e tassi elevati, cui si aggiunge la progressiva riduzione del volume di acquisti di titoli del debito da parte della Banca Centrale Europea, rischia di essere particolarmente problematica.
Tuttavia la buona notizia è che l’Italia, almeno teoricamente, beneficia di un flusso costante di spesa pubblica da qui al 2026 pari ad almeno 1,5 punti di Pil all’anno, tramite il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Come è noto, il programma europeo Next Generation EU ha messo a disposizione per il nostro Paese 191,5 miliardi di euro, 68,9 dei quali finanziati da sovvenzioni a fondo perduto e 122,6 tramite prestiti. A questa cifra si è inoltre aggiunto un Fondo Complementare, interamente gestito dal Governo italiano e finanziato a debito, che completa con 31 miliardi di euro, e con le stesse tempistiche e modalità amministrative, le iniziative del Piano.
Pnrr, una polizza contro i rischi
L’implementazione del Pnrr rappresenta dunque per il nostro Paese un valido strumento di protezione contro i rischi di potenziale volatilità finanziaria che potremo vedere nel corso del 2023. Nel lungo periodo, è anche uno strumento fondamentale di stabilizzazione del nostro debito pubblico: un Pnrr correttamente realizzato dovrebbe infatti portare ad un guadagno strutturale di crescita per il nostro paese di 0,5 punti in più l’anno, avvicinandoci (finalmente) alla media europea e contribuendo a ridurre in maniera permanente (in presenza di avanzi primari anche solo moderati) il rapporto debito/PIL del paese.
Ma a che punto siamo con la realizzazione del Pnrr? Ad oggi risultano assegnati tramite procedura competitiva ai cosiddetti ‘soggetti attuatori’ (ministeri, enti locali o aziende statali) circa 120 miliardi di euro. E le prime valutazioni della Commissione europea sul rispetto delle tempistiche relative al raggiungimento di traguardi e obiettivi del Piano sono state positive. Questo ci ha consentito di sbloccare le tranche di finanziamento successive. Dunque su questo aspetto siamo in linea con i tempi previsti.
I ritardi dell’allocazione dei fondi
Dove, non sorprendentemente, stiamo accumulando ritardi è invece nel passaggio dall’allocazione dei fondi ai soggetti attuatori alla spesa effettiva dei fondi stessi tramite azioni sul territorio (passaggio che richiede bandi di gara, aggiudicazioni di appalti, Sal, e relativa rendicontazione). I dati aggiornati della Nadef ci dicono infatti che a fronte di circa 29,4 miliardi che avremmo dovuto spendere nel 2022, siamo riusciti a spenderne circa 15.
Quali le ragioni di questi, non sorprendenti, ritardi? Il primo motivo riguarda la capacità di spesa degli enti locali, ai quali è destinato oltre un terzo dei fondi previsti. Le amministrazioni territoriali più piccole hanno vincoli oggettivi quando si tratta di gestire somme importanti. In questo senso è emblematico il caso del comune di Pertica Alta, citato dal New York Times, che con un solo dipendente a tempo pieno dovrà impiegare 20 milioni di euro per il progetto del borgo della frazione di Livemmo. Non è tutto, però: alcuni enti locali destinatari di fondi finiscono con il condividere anche il segretario comunale tra loro.
Il secondo tema è quello legato a semplificazioni e procedure sostitutive, nonché allo sblocco di conferenze dei servizi e autorizzazioni a impatto ambientale. Mentre alcune regioni hanno semplificato molto o lo stanno facendo, altre si sono impegnate meno in questo anno e mezzo per colmare questa lacuna. Per semplificare è poi necessario digitalizzare, un’operazione che richiede tempo. Su questo processo e sullo sblocco degli sportelli unici digitali per l’edilizia e per i processi produttivi, le prime milestone operative arrivano al 2025.
La terza causa che ha portato al ritardo della spesa è collegata ad aspetti procedurali amministrativi. La Commissione europea ha chiesto ai Paesi membri di rendicontare ogni sei mesi lo stato di avanzamento di obiettivi e target del Piano nazionale di ripresa e resilienza attraverso un sistema specifico, il ReGis. Questo strumento è stato innanzitutto implementato dal ministero dell’Economia. In un secondo momento, hanno iniziato a utilizzarlo anche tutti gli enti locali, non prima però di aver imparato a farlo. Di fatto, ReGis è operativo da settembre 2022.
Su tutti questi aspetti ha già lavorato il Governo Draghi, con l’introduzione di procedure amministrative semplificate, lo sblocco delle assunzioni negli enti locali, e la predisposizione di specifiche strutture di assistenza tecnica per gli enti locali. Il Governo Meloni è ulteriormente intervenuto in febbraio con un decreto sulla gestione del Pnrr che fa ulteriori passi avanti su diversi fronti. Resta il fatto che nel 2023, per restare in linea con il Piano e supportare la crescita in Italia, gli investimenti dovrebbero salire a circa 41 miliardi, una cifra record per il nostro Paese, che evidentemente sarà tutta da verificare rispetto all’effettiva aumentata capacità dei soggetti attuatori.
Ma altre alternative non ne abbiamo.
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