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L’era delle culle vuote: come i governi cercano di contrastare il crollo delle nascite

Articolo tratto dal numero di luglio 2024 di Forbes Italia. Abbonati!

Nella campagna della Corea del Sud e su una piccola isola greca ci sono due bambini: Jeong-su e Savas Glinatsis. Il primo ha 12 anni ed è nato a Nogok, un centro rurale a est di Seul. Il secondo ha otto anni ed è cresciuto a Telendos, tra spiagge e rocce brulle, a pochi chilometri dalla Turchia. I due hanno qualcosa in comune: sono stati gli ultimi alunni delle loro classi. Poi i loro genitori hanno cambiato residenza per farli studiare con altri bambini. Jeong-su e Savas condividono anche un’altra cosa: vivono in due paesi che invecchiano e si rimpiccioliscono.

La Corea del Sud, dicono le statistiche, ha raggiunto il picco di popolazione quest’anno: circa 51 milioni e mezzo di persone. Da qui al 2065 scenderà a 38 milioni. Quasi la metà del paese allora avrà più di 65 anni. Anche in Grecia gli abitanti diminuiscono e la loro età aumenta. Sono due esempi, forse un po’ estremi, di una parabola che tocca gran parte del mondo. In Asia, in Europa e in America le persone vivono più a lungo.

Questo crea grandi vantaggi (è piacevole procrastinare la morte), ma anche sfide straordinarie. Perché l’altro aspetto del nostro presente e futuro demografico è il calo delle nascite ovunque, ormai anche nell’Africa sub-sahariana. La combinazione delle due cose – invecchiamento e scarsa natalità – sta trasformando il mondo. La piramide demografica, gradualmente, si ribalta. Società che si restringono e invecchiano perdono energia e vanno incontro a difficoltà finanziarie. Piano piano manca quel surplus di giovani che serve a pagare i conti degli anziani. Così pensioni e assistenza medica diventano più difficili da garantire.

Il crollo della natalità

È la nuova fase di un cambiamento demografico cominciato alcuni secoli fa. Il principio è stato la rivoluzione industriale. Fino alla fine del 1700 le società umane si sono mantenute grossomodo stabili. Poi quell’equilibrio si è interrotto in Europa occidentale, prima in Inghilterra, poi in altri paesi. Il tasso di mortalità è crollato, la natalità no. Il risultato: un aumento esplosivo della popolazione. Grazie alla crescita economica, ai miglioramenti della medicina e della sanità pubblica, il resto del mondo si è incamminato sulla stessa strada, ma ancora più velocemente.

Negli ultimi 100 anni gli abitanti del pianeta sono quadruplicati, da due a otto miliardi. E poi lentamente, quasi senza accorgersene, il mondo è entrato in un’altra fase. Prima nei paesi ricchi, poi in quelli in via di sviluppo. Una convergenza che associa ovunque la diffusione del benessere e l’allungamento della speranza di vita al crollo delle nascite.

Oggi, secondo diverse stime, il numero medio di figli per donna potrebbe essere già sceso sotto 2,1, la soglia necessaria per mantenere stabile la popolazione. Le donne dei paesi ricchi sono quelle che si riproducono meno, con una media di 1,6 figli a testa. Ma anche nel mondo in via di sviluppo la popolazione finirà per ridursi. La Cina chiuderà il secolo con la metà degli abitanti di oggi. L’India dovrebbe raggiungere il picco attorno al 2060. La grande eccezione è l’Africa, dove pure la natalità comincia a scendere. Kenya, Etiopia e Nigeria, per esempio, raddoppieranno la popolazione.

Le politiche pro-nascite

Vale la pena ripeterlo: il problema non è il calo degli abitanti in sé, ma il cambiamento della composizione demografica. Nel 2000 i paesi ricchi contavano 26 ultrasessantacinquenni per ogni 100 persone tra i 25 e i 64 anni. Entro il 2050 la quota probabilmente raddoppierà e i luoghi più colpiti vedranno cambiamenti ancora più drammatici. Come gestire paesi con una quota di anziani così alta? Quasi tutte le nazioni ricche hanno adottato politiche pro-nascite. Fanno lo stesso, pur con meno risorse, i paesi a medio reddito.

Donald Trump ha assicurato bonus per bebè a pioggia se tornerà alla Casa Bianca. A gennaio il presidente francese, Emmanuel Macron, ha lanciato una campagna per “riarmare demograficamente” la Francia, che già spende ogni anno tra il 3,5 e 4% del Pil in politiche familiari. Le nuove armi preferite: test di fertilità e congedi di maternità. La Corea del Sud, cha ha la natalità più bassa del mondo (0,7 figli per donna), sta valutando una donazione incredibile: l’equivalente di 70mila euro per ogni neonato.

La demografia è un’ossessione particolare degli autocrati. Vladimir Putin sa che la ‘madre’ Russia ha bisogno di tanti figli. Però gli abitanti sono in calo da anni e invadere l’Ucraina è stata una pessima idea: 150mila soldati morti, quasi un milione di russi scappati e le nascite al punto più basso degli ultimi 20 anni. Alleandosi con la Chiesa ortodossa, Putin tenta di instillare una morale conservatrice e il desiderio di famiglie abbondanti. Ha definito il 2024 “l’anno della famiglia”. Ha promesso 157 miliardi di euro in sei anni per sostenere bambini e nuclei familiari. Le statistiche però sono impietose: la Russia da qui al 2050 è destinata a perdere altri dieci milioni di abitanti. L’amico ‘senza limiti’ Xi Jinping naviga in acque non molto diverse.

La Cina, nota da tempo per la sua politica del figlio unico, offre incentivi che vanno dall’assistenza all’infanzia alle agevolazioni fiscali per incoraggiare i genitori ad avere tre figli. Sia Putin che Xi stanno fallendo. Ma la realtà è che queste politiche tentano di fare qualcosa di difficilissimo.

I figli come bene di consumo

Si presume che il calo delle nascite dipenda da donne che posticipano la maternità per motivi professionali. Studiano, lavorano e non riescono a conciliare la carriera con la costruzione di una famiglia. La soluzione proposta? Sgravi fiscali, sussidi, asili nido, congedi di lavoro (anche per gli uomini), assistenza pubblica. Diversi studi hanno suggerito che i bassi tassi di natalità – come quelli osservati nell’Europa meridionale o nell’Estremo Oriente – siano dovuti alla carenza di tali supporti. Tuttavia, questo legame non è così evidente.

Anche le socialdemocrazie del Nord Europa, dove il welfare è tradizionalmente ben sviluppato, mostrano oggi una natalità ridotta. In Finlandia è diminuita di quasi un terzo dal 2010, al di sotto del Regno Unito e poco sopra l’Italia. Anche la natalità svedese, che resta superiore alla media europea, sta calando. In Francia sono nati meno bambini rispetto a qualsiasi altro periodo dalla Seconda guerra mondiale. In Corea del Sud le politiche pro-nascita, con 270 miliardi di dollari spesi dal 2006, non sono servite a nulla.

Come mai è così difficile stimolare le nascite? Per capirlo bisogna addentrarsi negli aspetti psicologici e culturali delle famiglie contemporanee. L’economista statunitense Gary Becker, premio Nobel nel ’92, ipotizzava che nelle società benestanti i genitori vedessero i figli non più come una risorsa produttiva, ma come un bene di consumo. Un bene spesso caro. In queste condizioni, secondo Becker e altri studiosi, le persone hanno cominciato a desiderare pochi figli di ‘alta qualità’, cioè ben istruiti, in parte anche per renderli più competitivi nel mercato del lavoro. Ma l’istruzione è un percorso lungo e dispendioso. Ciò ha aumentato il ‘costo opportunità’ di avere bambini, spiegano gli economisti.

Perché le donne rimandano la gravidanza

Ecco uno dei motivi per cui le politiche pro-nascita ottengono così poco: dovrebbero influenzare il comportamento di giovani istruiti, concentrati sulla carriera, tutto sommato benestanti. Un obiettivo molto difficile da centrare. Anche perché le prospettive economiche di questi giovani (e meno giovani) oggi sono spesso declinanti. Questo è il punto fondamentale: gli incentivi, almeno in parte, si basano su un malinteso. Qualche tipo di effetto, è chiaro, a volte ce l’hanno, e anche piccoli aumenti di natalità sono utili. La Francia ha speso molto, e non è un caso che abbia una natalità più alta di quella dell’Italia. Ma l’equivoco è credere che il calo delle nascite sia tutto dovuto a donne che posticipano (o rinunciano) alla gravidanza per motivi di studio e poi di lavoro.

Le misure attuali hanno come target le madri professioniste. L’obiettivo è aiutarle a conciliare la carriera con i figli. In Europa molti incentivi sono legati al reddito, sotto forma di pagamenti per la maternità e agevolazioni fiscali. Esempio: in Norvegia, le madri hanno quasi un anno di congedo dal lavoro, con il reddito pre-gravidanza garantito dallo Stato, oltre a una vasta disponibilità di servizi per l’infanzia. Il problema è che nei paesi ricchi il calo delle nascite è dovuto in larga parte a un’altra categoria di donne. Contrariamente a ciò che diceva Becker, il grosso di questo calo non dipende da un cambio di abitudini tra i professionisti. La riduzione invece sembra spiegabile così: donne molto giovani, spesso adolescenti, che (per loro fortuna) oggi fanno pochissimi figli.

Alla radice del calo della natalità

In America, secondo l’Economist, la diminuzione della natalità dal 1990 può essere attribuita in gran parte al fatto che le ragazze sotto i 19 anni hanno ridotto drasticamente il numero di figli. Queste donne, oltre a essere molto giovani, appartengono spesso a fasce di reddito basse. Sempre l’Economist aggiunge che circa un terzo delle nascite evitate erano “non pianificate”, e la maggior parte sarebbe avvenuta tra donne a basso reddito. Questo è dovuto in parte all’aumento delle iscrizioni universitarie tra le ragazze, che posticipano così la gravidanza. Tuttavia, anche chi non frequenta l’università tende a rimandare il momento di avere figli. Oggi circa due terzi delle donne americane senza laurea nella fascia 20-29 anni non hanno ancora avuto il loro primo figlio. Nel 1994, l’età media alla prima gravidanza era di 20 anni.

L’altro punto cruciale è che le donne giovani con basso reddito sono quelle che sembrano reagire di più agli incentivi. È il caso di Israele, dove i sussidi per i figli hanno avuto un impatto maggiore sulle donne povere che su quelle benestanti. Lo stesso è avvenuto in Norvegia e in Finlandia. In Francia, la riduzione dei crediti d’imposta per i figli di coppie della classe media non ha influito sul tasso di natalità. In Cina viene offerta una somma forfettaria alle coppie appena sposate, a patto che la donna abbia meno di 25 anni. In Russia, le donne che avranno un figlio prima dei 25 anni saranno presto esentate dall’imposta sul reddito.

Le ricette per rilanciare le nascite

Non sono in pochi a guardare con scetticismo a queste misure, costose e poco efficaci, sollevando anche dubbi etici. Secondo l’Economist, spingere ragazze molto giovani a fare figli potrebbe comprometterne le possibilità di sviluppo. Una gravidanza precoce potrebbe ostacolare l’istruzione, soprattutto se la giovane appartiene a una fascia di reddito bassa. L’Economist cita un dato: pare che, se una madre americana partorisce per la prima volta intorno ai 35 anni, guadagnerà più del doppio di quanto avrebbe fatto se avesse avuto il primo figlio a 22.

C’è però anche un aspetto positivo: gli aiuti riducono la povertà e migliorano la vita dei bambini che nascono. Non è poco. Il bambino può essere una risorsa per la società e non è detto che sia un handicap per la giovane madre. Come non è detto che le donne più in là con gli anni, che hanno terminato gli studi, riescano ad avere tutti i figli che desiderano.  

L’Economist sostiene che le donne della classe media con una buona istruzione tendono a fare figli solo poco più tardi rispetto al passato e in numero simile a quello delle generazioni precedenti. Ma sembra un punto discutibile, poiché altre indagini offrono interpretazioni diverse. In Spagna, ad esempio, i sondaggi indicano che le coppie desiderano più figli di quanti ne riescano ad avere. Il paese ha un tasso di natalità basso, simile a quello italiano. Rimuovendo o alleviando certi ostacoli, il numero di figli potrebbe aumentare, anche se solo lievemente. Forse vale la pena provarci.

È vero che le politiche pro-natalità finora non sono state efficaci, come dimostra il fallimento in Corea del Sud. Però in Svezia e Francia il tasso è più alto che in Italia. Vuol dire che, calibrando bene gli aiuti, qualcosa si può ottenere, e sono utili anche piccoli aumenti. Il resto va colmato con l’immigrazione. Poi ci aiuteranno l’innovazione tecnologica e l’aumento delle competenze. Infine la questione delle pensioni: vivere più a lungo significa anche lavorare più a lungo.

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