articolo di Pierguido Iezzi
Viviamo in un’epoca in cui la tecnologia non è più soltanto una forza di innovazione, ma un potere capace di modellare l’economia e la politica globale. La rivoluzione digitale del millennio che prometteva di dare una voce a tutti, connettere il mondo e renderci più liberi si sta rapidamente avviando verso una distopica realtà “monomarca”.
Impossibile negare che negli ultimi due decenni l’ascesa di colossi digitali abbia contribuito a creare una vera e propria oligarchia digitale, in cui una manciata di aziende domina la rete, condizionando la vita di miliardi di persone.
Al di fuori della Cina, dove l’influenza delle aziende locali è preponderante e strettamente legata al controllo stesso del partito; a detenere il controllo della rete e delle risorse digitali, oggi, sono in gran parte società americane: Amazon, Google, Microsoft, Meta e Apple. Questi giganti tecnologici non solo accumulano profitti, ma influenzano mercati, norme e addirittura politiche internazionali.
E in questo scenario di crescente monopolio aziendale, sta emergendo con forza la figura del culto della personalità. I deus ex-machina del bit e dei byte; al di sopra delle leggi nazionali e soprattutto delle regole del pubblico discorso. Imprenditore tecnologici, ma anche personalità con ambizioni che si estendono anche alla sfera politica.
Pensiamo al ruolo di assoluto primo piano di Elon Musk nelle elezioni, la sua vicinanza a figure influenti e la sua recente importanza per il governo Usa – in particolare con l’amministrazione Trump II – pongono questioni fondamentali sul futuro della governance e della democrazia stessa. Chi sono, oggi, i veri detentori del potere? Quali implicazioni ha la loro influenza su una società sempre più connessa, dipendente e vulnerabile alla centralizzazione?
La corsa verso l’oligarchia: dall’innovazione alla concentrazione del potere
Per comprendere questa trasformazione, è utile partire da un dato preoccupante: il numero di aziende tecnologiche globalmente rilevanti potrebbe ridursi dalle 70 rilevate nel 2017 a meno di 30 nel 2030 e addirittura a 10 entro il 2050.
Questo processo di concentrazione del potere digitale si manifesta in settori chiave come quello delle infrastrutture digitali, della ricerca e sviluppo, e persino della moneta virtuale. Solo il 4% delle entità detiene il 95% di tutti i bitcoin in circolazione, con l’1% che ne possiede metà.
Le criptovalute, inizialmente celebrate come simbolo di decentralizzazione e libertà economica, rischiano di trasformarsi in un ulteriore strumento di controllo, dove pochi attori possiedono un enorme potere finanziario senza le restrizioni del sistema bancario tradizionale.
La concentrazione è ancora più evidente nel campo della ricerca e sviluppo. Le prime 2000 aziende globali in R&D, la maggior parte con sede in Usa, Cina e Giappone, detengono il 75% dei brevetti globali nel settore ICT e il 70% dei loro investimenti totali è concentrato nelle prime 200 società.
Questo squilibrio determina una vera e propria corsa al monopolio tecnologico, in cui l’innovazione non è più un’opportunità democratica, ma una risorsa detenuta da pochi, i cui benefici restano circoscritti. In questa fase storica, le ambizioni geopolitiche e la competizione per la supremazia tecnologica si intrecciano sempre più strettamente.
La Cina è oggi uno dei principali protagonisti di questa rivoluzione e con investimenti massicci punta a diventare la potenza tecnologica dominante entro il 2050. Il suo tasso di crescita nella spesa per la ricerca supera quello degli Stati Uniti e dell’Europa, rappresentando ormai oltre il 21% del totale mondiale.
Con supercomputer come Sunway TaihuLight e Tianhe-2, e un piano ambizioso per diventare leader globale nell’intelligenza artificiale entro il 2030, la Cina consolida la sua posizione di avanguardia tecnologica. Il suo successo nel campo dell’AI potrebbe ridisegnare non solo il mercato tecnologico, ma anche gli equilibri di potere globali, suscitando preoccupazioni legate alla sicurezza, alla privacy e alla sovranità nazionale.
Gli Stati Uniti, d’altra parte, non intendono restare a guardare. Il governo americano ha investito nella realizzazione del primo supercomputer exascale, con l’obiettivo di riacquistare il primato computazionale. Lungi dall’essere una semplice questione di prestigio scientifico, questa corsa rappresenta una vera e propria lotta per il controllo delle informazioni, della sicurezza nazionale e della supremazia economica.
Gli oligarchi
In questo panorama, emergono figure come Elon Musk, il cui potere va ben oltre l’innovazione tecnologica. Musk, il fondatore di Tesla e SpaceX, è diventato una figura quasi mitica nel panorama tecnologico, ma anche un personaggio cruciale e controverso nella politica americana e mondiale.
Le sue aziende non solo producono innovazioni che modificano il nostro modo di vivere – dall’automobile elettrica alla colonizzazione di Marte – ma sono diventate strumenti strategici per il governo degli Stati Uniti. SpaceX, in particolare, si è rivelata essenziale per il programma spaziale americano, portando avanti missioni che un tempo erano prerogativa della Nasa.
Il ruolo di Musk nelle elezioni americane e la sua collaborazione con l’amministrazione Trump II testimoniano la crescente influenza dei leader tecnologici sulle decisioni politiche. Se un tempo erano i governi a sostenere e supervisionare l’evoluzione tecnologica, oggi sono le grandi aziende e i loro fondatori a influenzare le priorità, in parte anche a livello di sicurezza nazionale.
Musk non è solo un imprenditore, ma un vero e proprio influencer politico e strategico, in grado di orientare l’opinione pubblica e attraverso le sue aziende, di influenzare la politica americana. Facile comprendere come questa centralizzazione del potere tecnologico porti con sé rischi evidenti per la democrazia e la libertà.
Quando poche aziende detengono il controllo della maggior parte delle infrastrutture digitali e delle innovazioni, gli Stati si trovano di fronte a una scelta difficile: regolamentare queste aziende, col rischio di compromettere l’efficienza e la competitività, o lasciare che il potere di pochi continui a crescere incontrastato.
Questo problema diventa particolarmente rilevante quando si considera la capacità delle aziende tecnologiche – ed in particolare i social – di influenzare le elezioni. La concentrazione di dati e di strumenti per l’analisi degli stessi rende questi colossi capaci di determinare quali messaggi raggiungono il pubblico e come vengono percepiti.
La loro capacità di orientare l’opinione pubblica e di influenzare le elezioni ha preoccupato non solo governi, ma anche esperti di governance e di diritti digitali. Se i governi non riescono a sviluppare politiche di regolamentazione efficaci, il potere delle aziende digitali potrebbe crescere a scapito dei diritti individuali e della sicurezza collettiva.
Cosa resta all’Europa?
Di fronte alla crescente egemonia digitale di Cina e Stati Uniti, dobbiamo affrontare con lucidità una verità scomoda: l’Europa, nella sua attuale configurazione, non dispone delle capacità tecnologiche, economiche e strategiche necessarie per competere efficacemente su scala globale.
Questa consapevolezza non è solo un punto di partenza, ma una chiamata all’azione. Accettare il fatto che siamo divenuti una terra di conquista digitale – una provincia digitalizzata in un mondo dominato da colossi esterni – non deve significare rassegnazione, ma la necessità di scegliere un percorso che rafforzi la nostra resilienza e preservi la nostra sovranità.
La scelta diventa dunque obbligata: dobbiamo individuare un alleato strategico. Non un alleato qualsiasi, ma uno che rifletta i nostri valori fondanti di democrazia, libertà e pluralismo, e che sia in grado di supportarci nello sviluppo delle competenze digitali necessarie per navigare nel contesto geopolitico attuale.
Il tutto mantenendo un rapporto di equilibrio tra le parti senza braccio di ferro forzati o pesi specifici differenti. Attraverso investimenti mirati e collaborazioni strategiche, questa alleanza deve diventare un catalizzatore per costruire non solo un’infrastruttura tecnologica avanzata, ma anche una consapevolezza culturale e politica che ponga al centro la resilienza delle nostre istituzioni, delle nostre economie e dei nostri cittadini.
La resilienza, infatti, non è solo una questione tecnica; è la capacità di adattarsi, resistere e prosperare di fronte a pressioni esterne. Una sovranità digitale autentica non si misura solo con l’autonomia tecnologica, ma anche con la capacità di proteggere i dati dei cittadini, di preservare le infrastrutture critiche e di garantire che l’Europa possa determinare il proprio futuro digitale senza dipendere da poteri esterni.
Solo attraverso un progetto comune, in cui gli Stati europei collaborino per diventare realmente un’unione digitale coesa, possiamo ambire a una scelta libera. Una scelta in cui non siamo più costretti a subire le dinamiche imposte da altri, ma possiamo finalmente definire il nostro ruolo come protagonisti nel panorama globale.
L’Europa, quando unita nella visione e nei valori, ha il potenziale per diventare non solo un polo tecnologico, ma un esempio di governance digitale resiliente e sovrana, capace di tutelare il suo modello unico di democrazia e libertà.
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