Blastare, blastare, blastare: ci siamo passati tutti. Nella guerra che ogni giorno si combatte sui social, a chi non è capitato, almeno una volta, il momento scorbutico? Quello, per intenderci, in cui credevamo di avere dannatamente ragione e, di fronte all’utente sprovveduto che avanzava qualche dubbio sconcertante o l’ennesima ipotesi improbabile, noi gli abbiamo sbattuto in faccia la prova della sua ignoranza. Con tutta la cattiveria che avevamo. Come se volessimo distruggerlo. To blast, appunto, cioè “far esplodere”. Del resto, non se l’era cercata? E così, appagati dall’applauso virtuale ricevuto dalla nostra claque, gongoliamo e ci sfreghiamo le mani, come se avessimo dato un senso alla giornata. Complimenti: proprio una cosa di cui vantarsi, non è così?
In Italia, e probabilmente non solo in Italia, c’è chi è riuscito a fare delle lezioni di creanza qualcosa in più di uno sfogo randagio, di una soddisfazione occasionale, rendendole un tratto distintivo del proprio lavoro. I primi nomi che vengono in mente sono quelli del giornalista Enrico Mentana e dell’immunologo Roberto Burioni, le cui risposte trancianti all’utente sprovveduto di turno sono divenute così popolari da essere argomento di discussione ancora più grande del contenuto stesso delle domande. Come in un Rischiatutto, sono le reazioni dei partecipanti al gioco e del presentatore a costituire lo spettacolo primario, e non più le nozioni culturali o scientifiche oggetto della competizione. Che a molti di noi piaccia vedere la gente umiliata? Chi avrebbe mai potuto immaginarlo.
Qualcuno ha coniato persino un termine, “burionismo”, per indicare quella comunicazione scientifica che su Facebook o Twitter perde la pazienza, si ribella alle provocazioni e all’inadeguatezza della gente comune e non le manda più a dire. Una delle risposte più famose del medico Burioni, “la scienza non è democratica”, scritta in una discussione sul tema vaccini sì/vaccini no, è diventata così famosa da assumere una vita propria, e diventare uno slogan e il mantra dei razionali che sembrano lamentare di non riuscire più a dibattere con gli incolti. E il campo del contendere si è allargato ulteriormente: prima le voci sussurrate e quindi confermate di un innamoramento da parte del Partito Democratico per questo combattivo scienziato, poi i prevedibili sfottò e malignare degli avversari politici. In seguito altre voci incontrollate, e altre reazioni stizzite da parte di Burioni, in un vortice di ultrà che, come in una guerra di prossimità, si “menano” sulle proprie bacheche a colpi di screenshot di altri blastatori professionali: come se il Verbo dell’esperto che dice l’ultima parola fosse il colpo del K.O. definitivo.
I creduloni da una parte, i razionalisti dall’altra? Non è così semplice. Per molti commentatori da sempre favorevoli ai vaccini, il modo di porsi di Burioni rappresenterebbe proprio tutto quello che la divulgazione non deve essere: il classico caso in cui una battaglia condivisibile viene portata avanti con mezzi così sprezzanti che, quasi quasi, rischia di farti simpatizzare con quelli dell’altra fazione. Secondo il giornalista Antonio Scolari di Valigia Blu, il burionismo contiene in sé “un’idea e un messaggio di isolamento ed estraniazione della scienza dal resto della società, e dai processi di partecipazione e costruzione del consenso”, e addirittura “di ostilità nei confronti della democrazia”. Si fa megafono cioè “di una idea della democrazia impoverita e svilita”. Secondo la rivista Not, che affronta il burionismo prendendolo più alla larga, partendo dal tema del complottismo nel suo complesso, la “brutale dicotomia debunkers/complottisti” rischia di alimentare davvero il sospetto e le paranoie. Perché “dubitare delle narrazioni ufficiali non solo è sano, non solo è legittimo, ma è anche un modo di svelare la complessità dell’esistente”. Soprattutto in Italia, spiega l’autore: “Dopotutto, se c’è un paese in cui il complottismo si è fatto Storia è il nostro”.
Per un altro giornalista, Alessandro Gilioli de L’Espresso, “non è con l’alterigia, la superbia e la presunzione di «possedere la scienza» che si sconfigge la pulsione diffusa verso i guaritori e i ciarlatani (…) ogni medico, nei rapporti col paziente e più in generale con l’opinione pubblica, deve essere umile, empatico, didascalico, disposto al confronto”. Gilioli dice di aver riferito queste perplessità a Burioni stesso: “Mi ha risposto che lui «non ha tempo» per il confronto, e questo mi è sembrato metaforico di tutti quei medici che «non hanno tempo», che sbrigativamente ti rifilano un esame diagnostico e ciao, esci dai loro studi senza sapere nulla, senza essere minimamente coinvolto in quella che è la tua malattia”.
Le opinioni di cui sopra provengono da fonti razionali e progressiste. Ma mi sembra che tralascino, tutte, una domanda da porsi a monte: perché certi utenti un po’ ingenui si ficcano, di loro sponte, nella tana del drago? Nelle diatribe familiari o politiche un certo (largo) margine di opinabilità c’è: tant’è che le suddette diatribe sono, per definizione, ad infinitum. Ma nel mondo scientifico la ragione è invece assai meno relativa, e questo dovrebbe aiutarci a vedere dei paletti – o una certa realtà oggettiva da noi indipendente – che ci impediscano di fare figuracce, o appiccare litigi inutili. E invece eccoli, sempre lì, armati del loro CAPS LOCK e dei loro punti esclamativi, indifferenti al rischio della smentita sarcastica e dell’umiliazione pubblica. Certo, molti usando profili fittizi si lanciano come kamikaze con cinture piene di supposizioni e bufale. Ma il meccanismo del confronto – dubbio, domanda, reazione dura/cortese – che noi ci stiamo sforzando di analizzare è così lineare?
Da quando in qua il ceto scientifico, e non solo, avverte la pressione del confronto con un numero incalcolabile di utenti al giorno, dal collega preparato che interviene con precisione allo schizofrenico che cerca il suo sfogo? Mi sembra evidente che i social media hanno avuto un ruolo epocale in questo. Oggi, rispetto anche solo a vent’anni fa, tutti hanno accesso a conoscenze su cui non hanno investito o non possono investire le risorse necessarie per mettersi alla pari con i Burioni di turno, e se la deontologia professionale di un medico non sembra cambiata rispetto ai tempi de La cittadella, è anche vero che è cambiato il modo in cui noi ci rapportiamo con gli Esperti: perché essi si sono moltiplicati, sono davvero lì, a un passo, e la tentazione di interrogarli come una Sfinge – o anche, più maliziosamente, di importunarli – è troppo forte. Del resto non succede anche con i politici che ci stanno antipatici?
Il punto è capire se questo sapere apparentemente illimitato, a disposizione di tutti, sia gestibile da una semplice cura di gentilezza e pazienza, o piuttosto se non si trasformi in un’arma a doppio taglio proprio per la “gente comune”. È innegabile che Burioni ha polarizzato ancora di più le parti con le sue battute sprezzanti, e forse potrebbe assumere uno stagista part time; è chiaro che quando sul suo libro sventola, sul retro della copertina, quei “numeri inoppugnabili che potrete opporre senza possibilità di replica al babbeo di turno”, lui sta soffiando sul fuoco della litigiosità, perché del resto ha deciso di camparci e non ha alcun interesse a ricucire lo strappo, mandando in malora il suo brand. È anche vero, però, che non sta scritto da nessuna parte, se non nei manualetti di bassa strategia politica, che il metodo scientifico debba essere fatto anche di due ore di confronto online con Eleonora Brigliadori o con la signora che guarda Voyager. La verità fuori da ogni complotto è che sappiamo bene come l’interazione virtuale possa danneggiarci. In fondo, quella “gente comune” siamo anche noi.
In un articolo de Il Sole 24 Ore che è circolato molto in questi giorni, si descrive un quadro a dir poco tragico della generazione dei trenta-quarantenni italiani, tra difficoltà esistenziali, ingresso ritardato nel mercato del lavoro, dipendenza dalla famiglia d’origine. Tutto ciò ha un costo psicologico per le persone e uno, enorme, economico per lo Stato che dovrà farsi carico di questo disagio, spiega un sociologo: “Noi non riusciamo neanche a immaginare la difficoltà di adeguamento a un simile contesto di vita”, dice Mario Morcellini, che cita anche un “certamente possibile aumento delle dipendenze, tra le quali non escluderei di citare la dipendenza della rete”. È esattamente questo che i contestatori in buona fede di Burioni sembrano non vedere: la totale rimozione delle implicazioni di internet in termini psicologici e di gestione del tempo. Due anni fa Andrew Sullivan, storico giornalista conservatore americano, firma di svariate testate nonché pioniere dei blog di fama mondiale, raccontava la sua crisi da troppa connessione, che lo aveva distrutto fisicamente e mentalmente, intrappolandolo in “una galleria del vento assordante e soffocante” fatta di parole e immagini, suoni e idee, emozioni e invettive. In modo simile, la scrittrice e attivista Rebecca Solnit, racconta in un saggio del 2015: “Mi sento come in un brutto film di fantascienza, in cui tutti prendono ordini da piccole scatole direttamente collegate a entità aliene superiori”. Se siamo tutti d’accordo sul fatto che la contestazione al burionismo è nel metodo e non nel merito, siamo sicuri di non starci affidando a un metodo schizofrenico alla radice?
Se L’Espresso su cui scrive Gilioli, così come la totalità della stampa cartacea, è in crisi non è perché il pubblico ha scelto di affidarsi a fonti e investigatori più credibili, bensì per l’enorme disponibilità di complotti e macchinazioni a buon mercato su internet, che rende pressoché inutile l’intervento dei mediatori giornalistici, intellettuali e politici di un tempo. La giustificazione del “non ho tempo” offerta da Burioni, sincera oppure no, mi sembra un motivo più che valido per riconsiderare l’incentivo a impelagarsi (e far impelagare gli altri) in discussioni su Facebook. Il punto è capire che valore diamo a questo tempo – il nostro tempo – prima ancora che a quello dei nostri referenti virtuali. Non c’è nessuno studio credibile che dimostri l’effetto deleterio della brutalità del burionismo sull’educazione scientifica e la prevenzione, così come non c’è nessuno studio credibile che ne dimostri l’apporto positivo. A questo punto dell’indagine non possiamo fare altro che ridurre il confronto virtuale a un perverso effetto placebo, sia sui razionali (appagati dal loro idolo) sia sugli irrazionali (che forse sono lì per soffrire?), e dunque: nient’altro che una secchiata di benzina sul fuoco della distrazione collettiva. Il che non è in assoluto sbagliato. Ma non possiamo lamentarci della dipendenza da social media, da un lato, e poi dall’altro giustificare da una prospettiva pedagogica – che non ha nessuna credibilità scientifica – lo sperpero di risorse umane e produttive in un confronto senza sbocchi.
Per fare un esempio, i “medici che sbrigativamente ti rifilano un esame diagnostico”, di cui parla Gilioli, sono sì spesso obnubilati da un deficit empatico e comunicativo, ma sono inseriti anche in un sistema lavorativo del tutto diverso da quello di un curatore di bacheche socialmediali; si trovano in una struttura fisica che distribuisce ruoli e compiti in base a preparazioni specifiche, entro parametri di tempo limitati e stipendi ben precisi. È più reazionario fare i materialisti, e far notare come i toni pacati e la pazienza spesso si appoggino su una condizione di privilegio, e come la dipendenza da Facebook sia un problema serio; o piuttosto è reazionario invitare ogni scienziato a dedicare il proprio tempo (gratuitamente) alla divulgazione virtuale, e ogni utente a gettarsi sì, nella mischia, ma con gentilezza?
L’equivoco di cui la sinistra anti-burionista si fa vessillo, ancora una volta, è considerare la disponibilità al dialogo, al sacrificio volontario e alla perdita di tempo come una qualità intrinseca, esclusa da quelle leggi materialiste che applica a qualunque altro campo: dal “Non è lavoro, è sfruttamento” – che comprensibilmente rivendica un salario adeguato per qualunque mestiere – all’estremismo del collettivo Wu Ming che addirittura arriva a pretendere la restituzione del plusvalore di cui Zuckerberg si sarebbe appropriato, complice il nostro troppo smanettare su Facebook.
In un celebre saggio del 1961, La folla solitaria, il sociologo David Riesman divideva la borghesia del XX secolo tra “autodiretti”, cioè guidati da una forte moralità interiore, anticonformisti, spesso difficilmente integrabili in società, ed “eterodiretti”, cioè gregari, che hanno bisogno di rispecchiarsi nei propri simili e di sentirsi da essi indirizzati, e si spera approvati. È curioso però come gli esempi forniti da Riesman ci risultino un po’ antiquati, se confrontati con la nostra esperienza di società immersa nella Rete. Per Riesman, un archetipo di “eterodirezione” è Stepan Arkadyevitch Oblonsky, personaggio tratto da Anna Karenina, di cui l’autore cita un celebre passo: “Dunque le opinioni liberali erano divenute un’abitudine per Stepan Arkad’ic e gli piaceva il suo giornale, così come il sigaro dopo il pranzo, per quella leggera nebbia che gli generava in testa”. Arkadyevitch è amabile, mai opportunista, impeccabile ad ogni evento mondano. È il rappresentante della élite burocratica russa, una minoranza dominante che si identifica perfettamente nei giornali che legge. Per contrasto, un personaggio “autodiretto” è Konstantin Dmitrič Lèvin, forse specchio di Tolstoj, tormentato e ribelle, incapace di sentirsi a proprio agio in società. Ovviamente, i lettori contemporanei tendono a identificarsi con quest’ultimo. Il paradosso è che Arkadyevitch oggi farebbe parte di una vasta maggioranza che forse non sa di esserlo, perché si sente assediata e non rappresentata, e al posto del giornale e del sigaro dopo pranzo si diletterebbe a condividere gli status di Burioni. I Levin del 2018? Questo nuovo eroe romantico si sentirebbe parte della gente pur essendo minoranza, ed esprimerebbe il suo anticonformismo condividendo gli status… di Povia. Tanto dobbiamo all’illusione del sapere offerto dalla Rete.
Non ci è dato sapere se Burioni avesse fin dall’inizio della sua carriera aspirato a diventare un blastatore professionale, o se ha tutt’oggi qualche problema col suo salario da ricercatore. Però quello che sappiamo è che Burioni, grazie a questo suo segno di riconoscimento, ha scritto qualche libro, sicuramente lo ha venduto, è stato invitato in trasmissioni televisive e con tutta probabilità anche a prestigiose conferenze ben retribuite. Questo non per fargli i conti tasca, ma per dire che, se uno sui milioni che scommettono sull’addiction da interazione socialmediale ce la fa, buon per lui, ma non è detto che a tutti i partecipanti al gioco convenga.
La divulgazione scientifica e l’apprendimento richiedono tempo, e il tempo ha sempre un costo per qualcuno. La nostra incapacità a ricalcolare questo costo – col mutamento delle regole e della natura stessa del lavoro – ci potrà sì illudere di essere più buoni, più disponibili, più colti, ma anche arrecare un danno psicologico ed esistenziale. Se anche fossimo convinti di volerci atteggiare a pedagoghi bonari, a curati di campagna che si donano al pascolo casuale della Rete, anche se fossimo sinceramente persuasi che gli utenti avvelenati si possano recuperare – nonostante non muoiano mai, anzi, si moltiplicano a dismisura – personalmente mi starebbe più a cuore la sorte di chi cerca di porsi come fragile intermediario, dando ragione un po’ qui e un po’ là, predicando calma e gesso in un ambiente che è stato programmato per non avere né calma né gesso, e che finirà col travolgerlo. Volete convincere gli indecisi a non abbandonarsi ai vittimismi del cospirazionismo? Bene, pensate che loro, i blastati occasionali, stanno messi molto meglio di voi, votati al martirio.
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