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Le armi legali utilizzabili a difesa del made in Italy

(Shutterstock)

È il patrimonio più importante del nostro Paese, simbolo di tutto ciò che ci ha reso grande per la capacità di combinare cultura, buon gusto e genio imprenditoriale. Basterebbe questo, con tutto ciò che ne deriva in termini di ricchezza prodotta e occupazione conseguente, per capire la rilevanza della partita da giocare in difesa del made in Italy. Ne abbiamo parlato con Paola Corte, partner dello studio legale Corte e tra i massimi esperti di diritto alimentare italiano, una expertise che l’ha portata a essere inserita tra le altre cose nel consiglio della European Food Law Association(Efla).

Si parla spesso delle minacce per la tutela del made in Italy, a cominciare dalla diffusione di prodotti che nel nome richiamano il nostro Paese, ma in realtà sono stranieri. Ci sono strumenti adeguati di difesa?

“Innanzitutto bisogna chiarire cosa si intenda per made in Italy e italian sounding.  Il primo significa letteralmente ‘prodotto in Italia’, ma rapportato agli alimenti, a livello nazionale viene promosso il concetto di made in Italy, come se volesse dire “fabbricato in Italia, con materie prime agricole italiane”. Italian sounding è invece un’espressione denigratoria attribuita a prodotti accusati di ingannare il consumatore richiamando indebitamente un’origine italiana.  Spesso si tratta di prodotti industriali effettivamente fabbricati in Italia, ma con materie prime estere”.

In linea teorica la differenza è chiara, ma nella pratica spesso si ingenera confusione nei consumatori. Quali le tutele legali?

“Per aiutare a riconoscere i prodotti fabbricati in Italia con materie prime italiane ci sono leggi nazionali e presto saranno applicabili regole comunitarie che impongono trasparenza in materia di origine del prodotto finito e di origine degli ingredienti primari. Per punire comportamenti scorretti da parte degli imprenditori sono previsti reati e sanzioni amministrative.  La tutela principale dell’industria italiana comunque è data dal fatto che i consumatori acquistino prodotti italiani”.

Insomma le leggi ci sono, anche se spesso non bastano. Ci sono nuove strade da percorrere?

“A livello nazionale sono stati emanati diversi provvedimenti che obbligano il produttore a dichiarare l’origine delle materie prime sulle etichette di alcuni alimenti, quali la pasta, i formaggi e così via. Queste norme informano il consumatore, e probabilmente proteggono l’agricoltura italiana, ma non sono sempre una tutela per l’industria italiana.  Creano vincoli per l’industria italiana, mentre le aziende estere non sono soggette a queste regole stringenti”.

Dal prossimo aprile decadranno le norme nazionali e, a livello comunitario, scatterà l’obbligo di dichiarare l’origine dell’ingrediente primario, quando questo sia diverso dall’origine indicata del prodotto finito. Cosa cambierà?

“Queste regole saranno applicabili a quasi tutti i prodotti alimentari.

Le regole europee sono spesso di difficile applicazione pratica.  Il vantaggio per l’industria italiana è che livelleranno gli oneri tra produttori europei.

Le norme comunitarie non prevedono, per ora, correttivi per il caso in cui l’origine di un prodotto alimentare sia suggerita da un marchio registrato.  In Italia, tuttavia, è previsto un reato – la vendita di prodotti industriali con segni mendaci – che punisce l’uso di marchi atti a trarre in inganno l’acquirente in merito all’origine del prodotto.  La tutela su questo fronte, quindi, in Italia c’è, indipendentemente dalle norme comunitarie”.

Quali sono i rischi più sottovalutati dagli imprenditori e quali sono a suo avviso le ragioni?

“Per la mia esperienza, gli imprenditori ritengono che dichiarare il vero al consumatore li metta al riparo dalle contestazioni.  Purtroppo, invece, dichiarare il vero non è sufficiente, perché non evita le contestazioni per ingannevolezza.  A volte la differenza di rilevanza grafica e di posizionamento delle diciture non è valutata con la dovuta attenzione, o si lascia prevalere l’esigenza di marketing.  E così dichiarare ‘prodotto in Italia’, anche quando sia vero, se le materie prime non siano italiane o se l’origine delle materie prime sia indicata in parti remote delle etichette, espone gli imprenditori ai rischi di importanti sanzioni, sia penali che amministrative. Con l’applicabilità della nuova normativa comunitaria dall’aprile 2020 questa situazione sarà esacerbata”.

Perché?

“Per ora le contestazioni di reati e sanzioni amministrative legate a questo fattore di ingannevolezza sono state limitate, nel numero. C’è da aspettarsi un aumento delle contestazioni nel momento di più grande fragilità- quello in cui gli imprenditori, specialmente i più piccoli, dovranno decidere cosa fare con gli imballi vecchi a magazzino- se usarli, rischiando le sanzioni, o passare a quelli nuovi, sprecando imballaggi non più utilizzabili”.

 A livello di costi cosa comporta tutelarsi adeguatamente contro questi rischi?

“Questo dipende dal tipo di strategia che si vuole adottare e dai rischi che si è disposti a correre.  Per ogni scelta c’è un costo- che sia in termini di costi di produzione, in termini di vendite dei prodotti, o di rischio di sanzioni.  La consulenza legale ha un costo molto limitato rispetto agli altri ed è certamente raccomandabile in casi dubbi al fine di aiutare gli imprenditori a valutare i rischi e a trovare le soluzioni più difendibili”.

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