Una rapina senza rubare a nessuno. I sequestratori cattivi che in realtà sono buoni. Una serie spagnola che ad alcuni fa gridare al capolavoro e ad altri fa venire voglia di disdire l’abbonamento. Qui, lo diciamo subito, si propende per la seconda ipotesi ma con qualche riserva. Alex Pina, il creatore della serie Netflix del momento, La casa di carta, dice d’essersi ispirato a Breaking Bad per questo gruppo di rapinatori che assedia la Fábrica Nacional de Moneda y Timbre (la zecca spagnola) per compiere il furto della storia: stampare 2 miliardi e quattrocento milioni di euro e fuggire indisturbati (svalutazione, questa sconosciuta). La casa di carta è ideato e prodotto sulla falsariga di Inside Man, ma anche Memento, ma anche Sons of Anarchy, ma anche Prison Break, ma anche tutto ciò che Pina ha visto e ha voluto rifare peggio, in versione dilettantesca. Se fosse una fiction italiana inorridiremmo alla recitazione composta di occhi sbarrati e menti tremolanti, roba da far sembrare il cast di Un posto al sole un raduno di attori premi Oscar: ma la serie è spagnola e lo spettatore non ci pensa, e si fissa sui sottotitoli, ascolta una lingua simile alla propria ma abbastanza diversa da non farlo pensare che lo sceneggiatore occulto di questo dialogo è Teodosio Losito.
Ciascun rapinatore ha il nome di una città. C’è Denver, lo spacciatore violento che però è in realtà un tenero antiabortista, e suo padre Mosca, il criminale che vuole la felicità del figlio. C’è Tokyo, che è una specie di Natalie Portman in Léon altrettanto bella ma meno sensuale (quando deve fare la sexy sembra Valeria Marini), una rapinatrice romantica e mammona. C’è Rio, l’hacker che s’è ritrovato in guai più grossi di lui: ha assaltato la zecca nazionale per caso. C’è Nairobi, la falsaria con un figlio da ritrovare. Ci sono i commilitoni serbi Helsinki e Oslo (i cui stereotipi, se fossero indiani o afroamericani, darebbero il via a polemiche sulla stampa anglosassone. Ma per fortuna sono dell’est Europa). C’è il laido Berlino, forse il personaggio più riuscito (l’unico sgradevole che però poi, figuriamoci, deve riscattarsi). Insomma nessuno è veramente cattivo e tutti hanno una giustificazione: sennò come puoi empatizzare, tu spettatore moralista e idealista che ti commuovi mentre i personaggi cantano Bella Ciao? Questa squadra di rapinatori è capitanata da un professore “geniale”, uno che ha organizzato la rapina del secolo, perfetta in ogni dettaglio, ma poi non ha previsto che, ops, se spari alla polizia poi quella risponde al fuoco.
Ma soprattutto c’è l’investigatrice in quota #MeToo, la quarta ondata del femminismo, Raquel Murillo. Quella che dovrebbe essere a metà tra Jodie Foster e la Sara Scofield di Prison Break ma è una brocca, lo zimbello della polizia internazionale, una Roberta Bruzzone che non ce l’ha fatta. In teoria dovrebbe andare così: lei sarebbe quella che gioca a scacchi in un continuo botta e risposta col Professore e le di lui finezze psicologiche. Nella realtà dei fatti è una che, con tutta la stampa nazionale, il governo e i servizi segreti che la osservano, si allontana dalla postazione per andare di continuo al bar a bere vino e flirtare con uno sconosciuto a cui racconta tutto, perché, hey, è una donna, e le serve una “sbatacchiata” ogni tanto (parole – tradotte – testualmente sue). Al primo incontro lui le presta il cellulare da cui lei chiama la madre e i propri superiori, poi lei ha qualche sospetto e lo perquisisce, ma si convince che è un brav’uomo e allora ci vuole uscire a cena. Siamo a questi livelli di thriller, e se non c’è sangue, non c’è cattiveria, non c’è scontro ci chiediamo cosa rimanga: pistole di plastica, maschere di Dalì, pippone sulla rivoluzione. L’esproprio proletario. Un “cancelliamo il debito”, però solo per alcuni anti-eroi che sognano il chiringuito coi figli.
Pina ha sostenuto che: “Siamo in un momento sociale cruciale, politicamente parlando, e siamo consapevoli di star vivendo il momento più alto della quarta ondata femminista. Siamo sensibili a questo movimento, e per questo vogliamo denunciare le cicatrici della violenza machista in un personaggio femminile diverso, una donna che si ritrova sempre a dimostrare la sua professionalità e la sua verità in un mondo di uomini che la tengono sempre sotto tiro”. Ambizioso. E in che modo dimostra la professionalità dell’ispettrice? Durante i negoziati, abbiamo detto, se ne va al bar a bere con uno sconosciuto – che è poi il Professore – e gli racconta tutto mentre gli ostaggi escono sul tetto, torna in postazione e dà ordine di sparare, ferisce un ostaggio mascherato e non un sequestratore, ha una crisi di panico, sale su un’ambulanza (chiedendo a un infermiere: “Puoi guidarla?”) e si allontana, torna a casa dove l’ex marito (che sta con la sorella, per dare profondità) ha violato il divieto di avvicinamento e si trova a casa sua, con la figlia. Al che la nostra eroina lo vuole ammanettare, lui le dà uno spintone e lei quasi si mette a piangere.
In un’altra occasione di crisi, quando il Professore fa credere all’opinione pubblica che l’investigatrice abbia scelto di salvare un ostaggio particolare (la figlia di un ambasciatore) sacrificandone altri otto, il capo dei servizi segreti la rassicura: “Il governo è dalla sua parte”. Ma a lei non basta, perché vuole fare bella figura con la propria madre e la figlia. E questo clima di misoginia maschile, quest’aria tossica, come si esprime? Con il collega innamorato che, ubriaco, le chiede se ha qualche possibilità con lei. Proprio il genere di personaggio femminile forte assediato dagli uomini di cui avevamo bisogno, non c’è che dire.
I dialoghi distruggono spesso ogni parvenza di credibilità del prodotto. Ogni tanto sono attraversati da qualche frase che funziona, un po’ di ironia post-moderna che legge la contemporaneità, ma il più delle volte sono frasi che ci vergogneremmo di leggere in uno status Facebook con lo sfondo colorato. Diremmo che mai la funzione di Netflix “tra 5 secondi inizia il prossimo episodio” è stata più velleitaria, ma ci sbaglieremmo. Questo prodotto funziona in Italia e all’estero: perché i personaggi giovani piacciono, perché il ritmo serrato tiene l’attenzione, perché non abbiamo di meglio da guardare, perché in fondo si superano i difetti per una storia avvincente e pazienza se la sceneggiatura è sciatta, pazienza se i dialoghi sono a tratti imbarazzanti, pazienza se i personaggi sono di gomma, pazienza: perché sono spagnoli. Se fossero italiani, però, non glielo avremmo perdonato.
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