Michele Casciani è ingegnere chimico con master in ingegneria ambientale. Presidente esecutivo di Igeam, è un manager con esperienza ultraventennale nei settori dello sviluppo sostenibile e dell’innovazione tecnologica, dell’ambiente, della salute e della sicurezza sul lavoro. È stato presidente della Associazione Italiana degli Igienisti Industriali e dell’ottava Conferenza Internazionale di IOHA (International Occupational Hygiene Association). Ha collaborato con enti di ricerca (ENEA, ISS e altri) e avuto numerosi incarichi di docenza universitaria (Università di Roma, Università di Genova e Università di Urbino) su argomenti relativi alla gestione “Environment, Health&Safety”.
A Casciani Forbes.it ha rivolto alcune domande circa le pratiche che le imprese dovrebbero porre in essere in vista della ripresa dell’attività dopo lo stop indotto dall’emergenza sanitaria legata al Coronavirus.
Il momento che stiamo vivendo è estremamente difficile. Qual è il suo primo pensiero come Presidente di una azienda e quindi come imprenditore?
Credo che in momenti come questo ognuno debba cercare di fare per bene il proprio mestiere. Ciò implica soprattutto la capacità di anticipare ed interpretare le esigenze e le preoccupazioni dei propri clienti.
Preoccupazioni che in questo periodo viaggiano su due binari paralleli, la salute e l’economia. Due punti di vista di un unico problema che chi fa il nostro mestiere deve saper coniugare. Non solo a livello teorico e prospettico ma anche nella pratica operativa. Per chi fa la nostra professione difendere la salute dei lavoratori significa difendere l’azienda e quindi l’economia. Oggi più che mai. E non è un modo di dire.
Dopo il periodo di lockdown diffuso, come si affronta la nuova fase di riapertura controllata?
La nuova fase si preannuncia “cruciale” per la tenuta economica e sociale del Paese. Per questo dobbiamo tornare al lavoro mentre i professionisti della prevenzione devono ora assumersi la responsabilità di introdurre le tecniche di protezione più adeguate. Ogni azienda in Italia ha a disposizione, per fortuna, un team multidisciplinare capace di intervenire a difesa dei lavoratori e del lavoro. Ora si tratta solo di farlo funzionare. E magari di scrivere la pagina più importante nella storia di questi “servizi di prevenzione e protezione”.
A suo avviso come dovrebbero agire le aziende per salvaguardare la salute dei propri dipendenti?
Progettando ed attuando sistemi integrati di monitoraggio della salute dei lavoratori che siano in grado di individuare in modo veloce e affidabile chi è “positivo” ma soprattutto, ai nostri fini, chi è “contagioso”.
Ciò si può realizzare costruendo procedure di “triage”, anche telefonico, per studiare l’anamnesi e i comportamenti recenti dei lavoratori, distinguendo i soggetti sani, quelli “immuni” e poi i soggetti che, ancorché asintomatici, hanno contratto l’infezione di recente e possono essere portatori del virus, e quindi di contagio, che vanno allontanati dall’ambiente di lavoro e poi monitorati in accordo coi Medici di Base e i Dipartimenti di Prevenzione delle ASL.
In questo contesto quale ruolo possono avere i test diagnostici e i metodi di rilevazione del virus?
I sistemi integrati di monitoraggio devono essere centrati su test diagnostici.
I tamponi standard tradizionali sono certamente il metodo più affidabile ma il loro utilizzo esteso anche alle comunità professionali non è “fattibile” (e per certi versi neppure “consigliabile”) anche semplicemente per la scarsa disponibilità dei reagenti necessari come pure di laboratori adeguati. I test sierologici invece, di cui si parla molto in questi giorni, sono particolarmente utili per effettuare degli “screening”, soprattutto sulla popolazione lavorativa. Ad esempio possono indicare i soggetti a cui prioritariamente andrebbe fatto un tampone. Quindi indicano molto bene, se ripetuti con una certa frequenza e accompagnati da indagini anamnestiche ed epidemiologiche, se un soggetto non è stato affetto dal Covid 19.
Sono convinto che i test sierologici possono essere un valido alleato nella lotta contro l’epidemia. Per questo si deve fare il possibile per introdurli rapidamente nella pratica delle strategie di prevenzione, a beneficio di tutto il sistema produttivo nazionale. Ciò, anche in considerazione della specificità della popolazione lavorativa, prevalentemente asintomatica.
A questo proposito, siete già in grado di definire una sorta di “best practices” per proteggere la salute dei lavoratori e dunque delle aziende?
Considerando quanto appena discusso, mi sento di consigliare, non solo ai nostri clienti ma a tutti coloro che hanno la responsabilità della salute e della sicurezza dei lavoratori, di concentrarsi su una serie di obiettivi principali che provo qui a riassumere:
- Dimensionare adeguatamente il team aziendale della prevenzione e dotarlo delle necessarie competenze multidisciplinari.
- Avviare le analisi sullo stato di salute della popolazione aziendale, soprattutto con l’individuazione dei soggetti eventualmente sintomatici, di quelli fragili e di quelli più esposti.
- Consolidare le misure di igiene, i piani di sanificazione, i programmi di protezione attraverso i dispositivi individuali e le misure di distanziamento, con il massimo del buon senso e della razionalità.
- Mettere a punto una adeguata procedura di gestione e controllo degli accessi nei luoghi di lavoro basata magari su sistemi informativi “intelligenti”.
- Adottare un piano di monitoraggio e di analisi della salute dei lavoratori, integrando i test rapidi in un programma che comprenda valutazioni anamnestiche e cliniche.
- Costruire una relazione con le autorità sanitarie locali per coordinare con loro la gestione dei “positivi”.
- Collaborare con tutti gli stakeholder, parti sindacali in primis, per cementare una forte alleanza tra azienda e lavoratori.
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