simboli dei social network
Cultura

Perché la nostra è l’era degli haters e non della responsabilità per le proprie azioni

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Se in questi tempi sono svanite, o si sono attenuate di molto, le grandi contrapposizioni ideologiche che hanno segnato la politica dei decenni precedenti, sembra invece aver acquisito una singolare, e per certi nuova, vitalità una forma di conflittualità più endemica e capillare, che senza dubbio ha trovato sfogo e terreno fertile nei nuovi mezzi di comunicazione e in particolare nei social network. Si tratti di discorsi connessi alla politica, agli stili di vita, alle questioni ambientali o ad altri temi, una normale divergenza di opinioni genera molto spesso contrasti verbalmente accesi, quando non violenti. Se si guarda agli spazi dove si svolge buona parte dell’attuale dibattito pubblico, come i talk show televisivi che ancora hanno un seguito e i social network, quella in cui viviamo può essere definita come la società dei nemici, dove sembra che chiunque, si tratti di un migrante che arriva via mare da un paese in guerra o del vicino di casa, possa rappresentare una minaccia e diventare fonte di prevaricazioni e di vessazioni per gli altri. Affronta questa dimensione del contemporaneo la psichiatra e psicoterapeuta Nicoletta Gosio nel saggio Nemici miei (Einaudi, 2020).

Fin dalle prime pagine della sua analisi l’autrice mette in chiaro che il meccanismo psicologico che alimenta questa ostilità diffusa non è altro che la tendenza, comune a molti, a proiettare le proprie percezioni e dinamiche interiori sull’altro. La proiezione, la costruzione di un capro espiatorio, la creazione di un colpevole o di una vittima sacrificale, come avveniva nei riti purificatori dell’antichità, la rigida contrapposizione tra buoni e cattivi, prima ancora che condizioni che determinano discriminazioni e persecuzioni, sono modi per prendere le distanze da qualcosa che ci riguarda, e che non si sa comprendere, e più precisamente dalla paura di essere giudicati, ci spiega Gosio.

Il fenomeno viene descritto con chiarezza da Sigmund Freud in Totem e tabù: “L’ostilità, della quale nulla si sa e nulla si vuol sapere, viene reietta dalla percezione interna verso il mondo esterno, e in tal modo separata dalla propria persona e sospinta su quella dell’altro”.

E, ancora, in Osservazioni psicoanalitiche su un caso di paranoia descritto autobiograficamente: “La proposizione “io odio” è trasformata per proiezione in quest’altra: “egli mi odia” (egli mi perseguita), il che mi dà quindi il diritto di odiarlo”.

All’autrice non sfugge che non c’è bisogno di risalire a Thomas Hobbes, filosofo inglese vissuto nel ‘600, e alla sue riflessioni sull’antropologia politica sintetizzate nella frase, celebre e arrivata fino a noi a cavallo dei secoli, “Homo homini lupus” per intuire come un grado significativo di aggressività abbia sempre caratterizzato le relazioni tra gli esseri umani. Tuttavia, quello che sembra essersi attenuato nella nostra epoca è il senso di responsabilità per le proprie azioni, aspetto che secondo Gosio sarebbe semplicistico e rischioso spiegare dando la colpa alle, pur ingenue, tensioni antiautoritarie degli anni ’60 e ’70 che in nome del motto “Peace & Love” pretendevano di sconfiggere la violenza abbattendo barriere e veti sociali. Anche il rapporto pubblicato dal Censis nel 2018 restituisce la fotografia di un’Italia incattivita e attraversata da rancori, a causa della “delusione per lo sfiorire della ripresa e per l’atteso cambiamento miracoloso”. Secondo Gosio, anche se ingiustizie sociali e disuguaglianze possono giustificare da parte di alcuni, o di molti, forme di aggressività, è riduttivo spiegare a partire da lì una rabbia sociale in espansione e la cui spinta al cambiamento sembra essere minata, e potenzialmente invalidata, da sentimenti vicini all’invidia e alla suscettibilità interpersonale. E se, come argomentava già Cristopher Lasch in La cultura del narcisismo (Bompiani, 1981), è possibile che le politiche liberiste e le deregolamentazioni ciniche dei decenni scorsi abbiano alimentato tra le persone un individualismo esasperato e delle conseguenti disillusioni, conviene ipotizzare che le reazioni rancorose e narcisistiche che vediamo spesso non abbiano tanto a che fare con delle aspettative disattese quanto con “la fine del sogno di piegare la realtà a proprio piacimento”. Gosio ci suggerisce, in sostanza, che l’origine di molta della conflittualità con cui capita di confrontarsi sia più infantile, acerba e irrisolta di quanto si possa pensare. Questo aiuta a spiegare, per esempio, la diffusione dell’hate speech, ovvero di un linguaggio in cui si manifesta apertamente una tendenza all’odio, soprattutto sui social network, e dove l’argomento alla base del discorso, si tratti di sport, di politica, di immigrazione o di altro, diventa un semplice pretesto per la violenza verbale.

Le cause psicanalitiche di questi atteggiamenti sono molteplici. Ci può essere il bisogno di esorcizzare una vulnerabilità che è stata o potrebbe essere anche propria e per questo di attaccare qualcuno in ragione della sua provenienza geografica, della sua condizione economica o del suo orientamento sessuale. O, ancora, l’identificazione narcisistica con figure di spicco della politica o dello spettacolo può trasformarsi in offesa e denigrazione non appena quell’immagine idealizzata di sé si incrina per un errore o un presunto insuccesso. Non c’è dunque da stupirsi se la politica di frequente finisca per strumentalizzare al fine di massimizzare il consenso un contesto psichico così fragile e propenso a crearsi dei nemici pur di non guardare dentro di sé e di non fare i conti con le proprie ombre e le proprie imperfezioni. A questo riguardo, si richiama l’antidoto suggerito da un giurista come Stefano Rodotà in Solidarietà. Un’utopia necessaria (Laterza, 2014), vale a dire la solidarietà che, diversa dalla carità, permette di “riconoscere l’Altro” e di vedere qualcosa di comune nei destini delle persone. E non manca uno sguardo alle relazioni di coppia, dove infelicità, assenze e dinamiche irrisolte spesso nascondono o indicano la proiezione di bisogni o di aspetti interiori della persona che vive queste condizioni.

Per chiudere, Nemici miei è un saggio che, con una sintesi e un’agilità di racconto che giovano alla sua leggibilità, ci può aiutare a interpretare e a comprendere un porzione ampia e complessa della contemporaneità, nonché, variando forme e modalità, alcune delle logiche che da sempre segnano i rapporti tra le persone.

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