La scorsa settimana ero seduto in un bar del centro di Milano assieme ad un vecchio amico – di nome Antonio – che vive in Umbria e che non vedevo da diverso tempo. Come di solito si fa in questi casi, ci si racconta cosa fanno i propri figli. Ho così raccontato ad Antonio che mio figlio si occupa di data analytics per un noto brand del settore beauty, mentre mia figlia ha deciso di lasciare il mondo delle aziende per sviluppare la sua più grande passione. Ha così seguito un percorso formativo per diventare maestra di yoga, ed ha iniziato a collaborare come yoga teacher per una catena molto nota di centri fitness e wellness. Sentendo queste mie parole, Antonio ha reagito con stupore dicendo, “Sai Alessandro, questa cosa che tu mi dici è interessante, devi sapere infatti…” e così mi ha raccontato che sua moglie Franca pratica lo yoga da diversi anni con un maestro privato che – prima del lockdown – si presentava alla loro abitazione una volta alla settimana. Ed ha aggiunto, “Carlo – nome fittizio del maestro di yoga della moglie – è un tipo alto, di bellissimo aspetto”, e sorridendo ha commentato, “e questa è una cosa che mi ha dato qualche preoccupazione. Sai Alessandro, mentre io picchietto sulla tastiera del computer nello studio di casa, Franca e Carlo se ne stanno di sotto a fare “pratica”, ed io più di una volta sono stato colto da brutti pensieri, pensieri su come la loro pratica potesse trasferirsi dal materassino al materasso della camera da letto…”. Dopo una mia sonora esplosione di risate, Antonio ha continuato, “Carlo trascorre il suo tempo muovendosi con l’auto in giro per l’Umbria, lavorando con una quindicina di gentili signore in sessioni personali di un paio di ore. Prima del lockdown le sue visite a casa nostra erano diventate una sorta di rituale settimanale che spesso mi aiutava anche a superare qualche litigio. Poi, quando è iniziato il lockdown, mia moglie ha ricevuto una chiamata da Carlo che le comunicava che avrebbe iniziato a fare le sue lezioni utilizzando Zoom. Franca non ha reagito molto bene, ma si è dovuta adattare. Vedere Carlo nelle posizioni del “cane a faccia in giù” piuttosto che del “cobra” o del “guerriero 1”, attraverso lo schermo del suo portatile non era come vederle sul materassino di fronte, ma presto si è abituata. E così ha continuato la sua pratica per tutto il lockdown guardando Carlo attraverso lo schermo del suo portatile”.
Dopo avere ascoltato la storia del mio amico Antonio e della moglie Franca, ho raccontato che anche io durante il lockdown ho iniziato a praticare un pò lo yoga, assieme a mia moglie e ovviamente assieme a nostra figlia, che stava esattamente dove si trovava il maestro Carlo, cioè dall’altra parte dello schermo. Dopo questa mia replica, Antonio ha esclamato, “Ma davvero? Devi sapere allora che il buon Carlo, lo scorso 5 Giugno, quando era appena terminato il lockdown, ha inviato una mail a mia moglie dove scriveva che avrebbe continuato le sue lezioni nella sola modalità online. Abbiamo poi saputo che la stessa mail era stata inviata alle altre clienti”. “Oh, caspita, interessante”, ho commentato io. E Carlo ha aggiunto, “beh, più che interessante, mi sembra furbo, anche perché Carlo ha scritto che la sua tariffa oraria sarebbe rimasta la stessa”.
Sentendo queste parole sono scoppiato di nuovo in una ultra-risata, talmente forte che Antonio mi ha chiesto, “Alessandro, perché ridi in quel modo?”. Ed io ho risposto, “Evidentemente Carlo deve averci preso gusto a vivere nel mondo virtuale”. “Non scherzare, spiegami perché ridi in quel modo”, ha insistito Antonio.
E ora vi spiego perché ridevo
Carlo probabilmente non ha ben compreso le “forze competitive” che ha scatenato. Ha sicuramente pensato che offrendo le sue lezioni online avrebbe potuto aumentare il suo reddito rapidamente e in modo considerevole. Se da una parte infatti non avrebbe più i costi generati dagli spostamenti in auto, dall’altra potrebbe aumentare di parecchio la sua base clienti. Già si vede il suo occhio che ruota ad alta velocità, si ferma sul dollaro e lui che esclama, “Bingo!”.
L’occhio di Carlo però probabilmente ignora che tutti i maestri di yoga possono ora “pascolare” nei prati umbri e mangiare la sua erba. La sua attività è infatti ora minacciata da centinaia di altri maestri di yoga sparsi in tutto il mondo, dico tutto il mondo, non solo l’Umbria o la vicina Toscana.
In altre parole, è aumentata enormemente la possibilità di scelta delle yogini umbre e così anche il loro potere contrattuale, cioè la possibilità di chiedere riduzioni della tariffa, con la minaccia di…
Cosa significa tutto questo?
La storia del mercato regionale umbro delle lezioni di yoga, si applica anche a tutte quelle aziende che sono state colpite dal “catalizzatore” Covid-19 e che hanno improvvisamente scoperto quanto possa essere potente l’e-commerce. I vantaggi potenziali che derivano dall’e-commerce infatti rendono spesso miopi gli occhi di molti chief officers, che vedono solamente i benefici vicini ma non vedono le minacce lontane. Vedono il potenziale allargamento illimitato della base clienti, la riduzione di molti costi operativi, ma non vedono la contemporanea eliminazione delle barriere all’ingresso che determina un aumento esponenziale del numero di prodotti o servizi sostitutivi nonché uno spaventoso aumento del numero di aziende concorrenti.
Ricordate Boo.com? E eToys, lo ricordate? E che ne dite di Eve.com? Se non li ricordate, state tranquilli, non li ricorda più nessuno. Boo.com era il sito web di un’azienda inglese fondata nel 1998 attiva nel settore del commercio online di prodotti di abbigliamento. Dopo avere bruciato 135 milioni di dollari di venture capital in soli 18 mesi, fu messa in liquidazione nell’estate del 2000. eToys.com era invece un sito di e-commerce per la vendita al dettaglio di giocattoli. Fu fondata nel 1997, e dopo un IPO di grande successo nel 1999, guadagnò rapidamente valore diventando un caso emblematico della bolla delle dot-com. Fallì nel 2001. Ma è il caso di Eve.com quello certamente più istruttivo. Eve.com era un rivenditore online di prodotti di bellezza di alta gamma fondato nel 1998 da Varsha Rao, consulente di McKinsey – assieme a Mariam Nacify, sua amica. Da buona consulente, Rao notò che lei e le sue colleghe – a causa degli impegni di viaggio e di lavoro – non avevano nemmeno il tempo di comprare un rossetto. Rao e Naficy decisero così di lanciare una piattaforma online per la vendita di cosmetici premium alle donne super-impegnate. Ricevuti i primi finanziamenti e il capitale di rischio da parte di alcuni venture capitalist, la piattaforma fu lanciata nel 1999. Dopo un anno dal lancio l’azienda aveva numeri di traffico tre volte superiori rispetto ai concorrenti online, 110 dipendenti ed offriva oltre 250 marchi premium di prodotti cosmetici. Fortune Magazine la nominò sesto miglior sito di e-commerce del 1999. Ad Ottobre del 2000, dopo che Rao e Nacify l’avevano venduta alcuni mesi prima ad un venture capitalist per 110 milioni di dollari, cessò di operare per mancanza di finanziamenti. E per finire la sua storia, il 7 Novembre del 2000, il Wall Street Journal titolava “Sephora.com buys assets of defunct e-tailer Eve.com”. Che tradotto significa: fu acquistata defunta da Sephora.com, il braccio online di Sephora.
Si tratta di tre storie che aiutano a capire perché ridevo. Mi spiego meglio. Se si decide di entrare nel mondo della competizione digitale per avere accesso ad una base clienti enormemente più grande ed a costi operativi più bassi, bisogna allora essere pronti all’attacco dei gorilla della Rete. E per sopravvivere all’attacco dei gorilla della Rete bisogna sapersi muovere nel modo giusto, seguire quello che io chiamo un corretto “movimento competitivo”. In altri termini, la competizione digitale richiede pochissimo “posizionamento competitivo” – che significherebbe stare fermi in una posizione – e tanto, tantissimo “movimento competitivo”, da una posizione alla successiva, senza fermarsi mai.
Ma in Rete, perché bisogna muoversi invece che posizionarsi?
Nei mercati digitali il successo competitivo si ottiene attraverso il movimento poiché i meccanismi che determinano tale successo non sono più caratterizzati da rendimenti decrescenti bensì da rendimenti crescenti. Alla fine dell’800 era ragionevole supporre che se una piantagione di caffè avesse aumentato considerevolmente la sua produzione, alla fine sarebbe stata spinta a utilizzare terreni meno adatti alla produzione del caffè. In altre parole, sarebbe incorsa in rendimenti decrescenti. Successivamente, nell’era della produzione industriale di massa del secolo scorso, i prodotti e le aziende che aumentavano la loro penetrazione in un dato mercato finivano anch’essi per andare incontro a delle limitazioni, quali ad esempio il numero e il genere di consumatori che preferiscono il marchio dell’azienda, oppure il numero di consumatori che vivono in una certa area geografica, piuttosto che l’accesso a delle particolari materie prime.
Nei mercati digitali invece, i rendimenti crescenti fanno sì che chi è avanti, vada sempre più avanti, e chi è indietro rimanga sempre più indietro. Detto in altre parole, chi ha successo tende ad avere sempre più successo, e chi invece non ha successo tende a…morire. Si tratta cioè di meccanismi di feedback positivo che operano all’interno dei mercati digitali per rafforzare chi ottiene successo o indebolire chi non ha successo. A differenza dei mercati del passato, dove i rendimenti decrescenti portavano all’equilibrio – nelle quote di mercato o nel prezzo – l’aumento dei rendimenti non genera equilibrio, genera invece instabilità: se un prodotto, un’azienda o una tecnologia, una delle tante concorrenti in un mercato, tende a diffondersi, l’aumento dei rendimenti amplifica sempre di più questo vantaggio, e il prodotto o l’azienda o la tecnologia possono arrivare a conquistare l’intero mercato.
Il giusto movimento competitivo è allora quello che riesce a sfruttare i rendimenti crescenti, e per fare questo le aziende devono agire in modo diverso rispetto a quello del passato, dove si andava alla ricerca della giusta “posizione competitiva”. È un errore infatti pensare che ciò che funziona nel mondo della “competizione fisica” sia appropriato per la competizione digitale, ed è anche un errore grave. È l’errore commesso ad esempio da tutti coloro – e sono tanti, tantissimi – che cercano di comprendere il posizionamento competitivo di Amazon, analizzandolo come se fosse un retailer.
Amazon – anche se è il negozio online di maggiore successo al mondo – non è certamente un retailer. È più appropriato pensare ad Amazon come ad un’azienda che gestisce dati, tecnologia e spazi fisici, per innovare la vendita di prodotti e servizi ai consumatori.
Ciò che è particolarmente intrigante nel movimento competitivo di Amazon è che tutte le sue innovazioni hanno il potenziale per generare fatturato diventando una piattaforma per altre aziende.
Come molti sanno, il movimento competitivo di Amazon ha avuto inizio con i Web Services. Sviluppati inizialmente per rendere più agile l’infrastruttura IT della piattaforma di e-commerce della stessa Amazon, a partire dal 2006 i Web Services sono stati offerti al mercato. Ad oggi gli utenti sono oltre 1 milione e – tra gli altri – sono utilizzati da Facebook, Netflix, LinkedIn, Financial Times, McDonalds e molti altri nomi noti. Il fatturato a fine 2019 è arrivato a superare i 35 miliardi di dollari, con una crescita del 37% rispetto al 2018.
Trattandosi di “movimento” competitivo, è ovviamente continuato – senza fermate – e nulla fa pensare che terminerà in una certa posizione. Ha riguardato ad esempio le tecnologie di checkout automatico – il cosiddetto checkout cashierless – sviluppate per i negozi fisici Amazon Go. Nel Marzo di quest’anno è stata infatti annunciata la creazione di una divisione per la vendita della tecnologia di checkout automatico ad altre aziende, sia del settore retail che di altri settori. Alcuni analisti stimano che il mercato di questa tecnologia potrebbe essere di 50 miliardi di dollari nei soli Stati Uniti.
E tanto per non rimanere fermi, lo scorso 27 Agosto Amazon ha rilasciato una nuova tecnologia nell’Amazon Fresh Store, il suo primo negozio di prodotti alimentari freschi. Si tratta del carrello intelligente Dash Cart che di fatto rende già obsoleta la tecnologia cashierless degli Amazon Go.
E cosa ha fatto Amazon lo scorso 15 settembre? Ha eseguito il suo ultimo movimento competitivo, che è stato il lancio della Luxury Fashion Platform. Il lancio della piattaforma per i prodotti del lusso era inizialmente previsto per la scorsa primavera ed era stato poi rimandato a causa della pandemia. Amazon consentirà ai luxury brand e ai designer presenti nella piattaforma il controllo completo dei loro prodotti, da come saranno presentati nella vetrina online, al prezzo a cui saranno venduti. Questa indipendenza sarà combinata con l’infrastruttura logistica della stessa Amazon. Alla data di oggi una dozzina di brand e designer sono già presenti nella piattaforma.
I movimenti competitivi di Amazon sono chiaramente finalizzati a sfruttare i rendimenti crescenti dei mercati digitali, in cui chi vince prende tutto, non solo una quota del mercato, ma tutto il mercato. Quindi, per essere chiari fino in fondo, l’obiettivo giusto nella competizione digitale non è quello di essere il leader in termini di quota di mercato o di redditività, bensì è quello di prendere tutto, la moltitudine dei consumatori, a (quasi) qualsiasi costo.
Per questo motivo, quello che molte aziende fanno quando entrano nel mercato digitale – attraverso la cosiddetta multicanalità – fa ancora parte del mondo del passato. Il linguaggio che viene usato dai chief officers di queste aziende rivela d’altra parte che il loro pensiero strategico è incastrato nel passato, è legato ai concetti di “quota di mercato” e “catena del valore”.
Ma nel mondo digitale non ha senso parlare di catena del valore, e non ha nemmeno senso parlare di obiettivi di quote di mercato. La catena del valore e gli obiettivi di quota di mercato erano rilevanti per definire il posizionamento competitivo nell’economia dei rendimenti decrescenti, in cui i differenti settori erano chiaramente separati gli uni dagli altri.
Ecco allora i 3 principi fondamentali da seguire per avere successo nella competizione dei mercati digitali del mondo post-Covid.
Muovetevi guardando lontano, non vicino
Le aziende che vogliono competere nei mercati digitali devono cambiare radicalmente il modo in cui pensano ai consumatori. Troppo spesso infatti sono “ammalate di sé stesse”, sono legate affettivamente a ciò che hanno fatto fino ad oggi e che probabilmente hanno saputo fare bene, e non riescono a guardare lontano. Pensano solo a come aumentare le vendite e la quota di mercato del brand che hanno creato, quando magari ne servirebbe uno nuovo da creare per il mercato digitale, completamente diverso. Oppure si limitano a considerare i confini storici del settore in cui operano, o al più guardano ad un settore adiacente, per rendere più facile il customer journey. Nel mondo dei rendimenti crescenti, l’incrementalismo però non esiste, porta alla morte certa.
Dotatevi di strumenti e persone per muovervi in territori lontani
Pensare di competere nei mercati digitali con la stessa squadra che compete nei mercati fisici, è come pensare che la squadra che vince il campionato di calcio possa vincere anche il campionato di pallavolo, o di basket. Nonostante sia impossibile, quasi tutte le aziende commettono l’errore di non dotarsi della giusta squadra e del giusto assetto organizzativo per competere nel “campionato digitale”. Attrarre e trattenere talenti digitali in una squadra che compete nei “campionati fisici” non può funzionare, e infatti non funziona. In questo articolo non intendo approfondire questo tema, voglio però sintetizzare il mio suggerimento attraverso una metafora militare. Le aziende che intendono competere nei “campionati digitali” devono creare squadre speciali altamente addestrate, dotate di strumenti di osservazione satellitare, in grado di realizzare missioni di conquista in territori lontani.
Se avete paura di farvi male, lasciate perdere
Se nei mercati digitali chi vince prende tutto, allora lo stile di competizione deve essere caratterizzato da una serie di ricerche ed esperimenti finalizzati ad identificare cosa può essere “vincente” tra i consumatori, qualcosa di simile al gioco d’azzardo. Non però un gioco come il poker, che è statico e i giocatori si contendono una serie di piatti. È qualcosa che assomiglia ai giochi d’azzardo del casinò, in cui parte del gioco consiste nello scegliere a quali tavoli sedersi per giocare.
La competizione digitale, se perseguita a questo livello, non è allora una competizione per timidi. Ciò che conta non sono solo la competenza tecnica, le tasche profonde e piene, ma anche la passione, e soprattutto il coraggio condito con tanta disciplina.
Come ha detto poco tempo fa il CEO di un noto brand con il quale collaboro per un progetto di (profonda) trasformazione consumer-centrica, “Con questo progetto pilota abbiamo dimostrato di poterlo fare per 20.000 clienti. Ora dobbiamo farlo per 2 milioni di clienti e tra 1 anno per 200 milioni”.
Ora capite perché ridevo?
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