A cura di Riccardo Porro, chief operating officer di Cariplo Factory
Facebook, Instagram, Apple e Intel sono probabilmente tra i più grandi casi di successo di startup supportate dal venture capital. Grandi imprese che hanno fatto la storia della Silicon Valley, ma che, se fossero nate in Italia, quasi certamente non avrebbero mai visto la luce. Colpa della cronica assenza di capitali del nostro sistema dell’innovazione. Scarse risorse limitano il numero degli investimenti e, nello stesso tempo, limitano moltissimo la possibilità di fallimento, elemento intrinseco e inalienabile di questo mercato. Esiste, però, una tipologia di investimento che sembra in grado di cogliere le opportunità derivanti dal mondo delle startup, anche in Italia: si tratta del corporate venture capital. È lo strumento che permette alle aziende di esplorare nuovi modelli di business, nuovi servizi e prodotti, allargando il raggio d’azione oltre il perimetro societario. Aprendo nuove business unit o, addirittura, nuove società.
In base al quinto Osservatorio sull’open innovation e il corporate venture capital italiano, pubblicato quest’anno, proprio il corporate venture capital sarebbe ormai una delle principali fonti d’investimento nell’ecosistema delle startup e Pmi innovative del nostro Paese. Le imprese si sono accorte che, per essere competitive devono aprirsi ai talenti, alle idee e alle tecnologie che ci sono sul mercato. Vogliono dialogare con questi soggetti innovativi, indagare opportunità di collaborazione e co-progettazione.
È quello che vediamo tutti i giorni in Cariplo Factory, uno degli hub italiani a maggior tasso di open innovation. Tuttavia, questa contaminazione è tutt’altro che banale. Il dialogo tra corporate e startup non è facile: spesso si fanno errori, per questo è necessario un mediatore culturale che faciliti questa relazione e sappia valorizzarla al meglio. Ed è esattamente il ruolo di Cariplo Factory. I dati dell’Osservatorio ci dicono che, quando le corporate intraprendono un percorso di open innovation, lo fanno con un duplice obiettivo: da una parte colmare dei gap di innovazione e velocizzare i processi trasformativi, dall’altra mettere sotto la lente di ingrandimento player ad alto potenziale in cui investire.
Sfruttare i percorsi di innovazione, a prescindere da come questi sono strutturati (ormai sotto la voce open innovation c’è una molteplicità di servizi che va molto oltre la classica call for startup), in una logica di corporate venture capital è una tendenza che offre enormi potenziali e che, nel prossimo futuro, si andrà consolidando sempre di più.
Innovazione e visione di lungo periodo: il ruolo delle aziende
Nel 2019, gli investimenti in startup e scaleup italiane sono cresciuti da 510 a 565 milioni di euro, coinvolgendo 243 aziende contro le 179 del 2018 (quando a “falsare” furono i 100 milioni raccolti da Prima Assicurazione), ma, nonostante il trend positivo, la liquidità a servizio dell’innovazione resta inferiore a quella messa sul piatto dalle grandi economie mondiali. Basti pensare che alla fine dello scorso anno, in Europa, la Gran Bretagna, la Germania, la Francia e Israele – che rientra nell’area Emea – rappresentavano da soli il 70% dei 32,4 miliardi di euro investiti nel 2019 (erano stati 23,4 miliardi l’anno prima).
Si tratta di un gap che si è allargato senza sosta a partire dallo scoppio della bolla dot.com: i grandi Paesi hanno continuato a investire nell’innovazione, l’Italia no. Insomma, l’Italia del venture capital difficilmente potrà colmare questo ritardo in tempi brevi.
Una spinta decisiva per accelerare questo recupero potrebbe venire proprio dal corporate venture capital: stando sempre ai dati dell’Osservatorio, tra settembre 2018 e settembre 2020, i soci corporate che hanno investito in startup innovative sono cresciuti dell’83,7%, da 7.653 a 14.055, un altro dato che testimonia quanto l’innovazione stia diventando centrale nelle strategie di sviluppo e di investimento delle aziende.
Siamo solo all’inizio del viaggio
Dal corporate venture capital, però, non arrivano solo segnali positivi. A livello di grandi aziende, per esempio, siamo ancora indietro rispetto all’Europa. In Germania, il 97% delle società quotate al Dax (l’indice della Borsa di Francoforte contenente i 30 titoli a maggiore capitalizzazione) è attivo nel corporate venture capital, contro il 15% delle 40 imprese quotate al Ftse Mib italiano. In Italia, insomma, siamo decisamente più conservativi: a fronte dei rischi, inevitabili nel contesto dell’innovazione, anche i ritorni sono incerti e non immediati. Una cosa è certa però: senza una visione d’insieme e di lungo periodo, e un pizzico di coraggio in più, le nostre imprese vedranno una continua erosione della loro competitività. E a farne le spese sarà l’intero sistema-Paese, che resterà indietro su economie che oggi stanno diventando sempre più determinanti.
La crisi legata all’emergenza sanitaria ha reso ancora più urgente accelerare sul fronte dell’innovazione. È in questo contesto che le aziende, entrando in contatto con le startup che più si avvicinano alle loro necessità, possono coglierne appieno il potenziale e approcciarsi a loro sia per avvantaggiarsi grazie alle loro soluzioni innovative, sia per assicurarsi idee, tecnologie e competenze, grazie a partecipazioni o acquisizioni. Non è un caso che Google, da anni, entri nel capitale delle startup più interessanti e le sostenga attraverso il fondo Google Ventures, seguendo il mantra “Innovation comes from anywhere”. Un mantra che finalmente sta arrivando alle orecchie delle imprese italiane.
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