General Electric, uno dei simboli più conosciuti dell’industria americana e icona del modello conglomerale del 20esimo secolo, sembra essere entrata in una crisi senza precedenti. Nonostante l’azienda di Boston abbia un brand aziendale ancora molto apprezzato, disponga di una capitalizzazione di mercato di circa 114 miliardi di dollari e detenga attività commerciali in 130 paesi, il suo declino sta riscuotendo molta attenzione, soprattutto a livello accademico.
Negli ultimi 12 mesi, General Electric è stata la società con le performance peggiori del Dow Jones, con un calo da 25,71 a 13,16 dollari. Nel giro di un anno il suo valore di mercato si è dunque quasi dimezzato. Mentre dal 1 settembre 2000 (picco massimo mai raggiunto dalla società in borsa e legato alla bolla delle dot-com) ad oggi ha perso il 78%. A causa di questo costante e continuo crollo, il 26 giugno 2018 General Electric è stata rimossa dal Dow Jones per la prima volta dopo 111 anni di continua appartenenza allo storico listino newyorkese. Al suo posto è subentrata la Walgreens Boots Alliance, società americana leader nella distribuzione di prodotti per la salute e il benessere, attualmente guidata dall’amministratore delegato italiano Stefano Pessina.
Con l’uscita di General Electric dal Dow Jones si è di fatto chiusa un’epoca. L’azienda di Boston era infatti rimasta l’unica società, tra le dodici aziende che appartenevano al noto indice azionario fin dal tempo della sua istituzione, nel lontano 1896, a fare ancora parte del paniere più conosciuto della Borsa di New York.
A oggi General Electric è presente anche in Italia con 11.500 lavoratori che operano in sette diverse divisioni, con tre centri di ricerca e sviluppo e due quartieri generali. La crisi globale di General Electric rischia di colpire anche i dipendenti italiani, ed in modo particolare la realtà di Nuovo Pignone (Firenze). General Electric, che nel 1994 aveva acquistato la storica azienda fiorentina dall’Eni, cederà entro i prossimi due-tre anni le quote detenute in Baker Hughes (BhGE), gigante petrolifero che oggi, per l’appunto, controlla la sede fiorentina.
Nell’ultimo grande sforzo di riorganizzazione interna, l’amministratore delegato di General Electric, John L. Flannery, ha infatti annunciato lo scorporamento delle attività di tecnologie mediche e sanitarie, oltre alla vendita della divisione Baker Hughes nei servizi petroliferi. La multinazionale americana si focalizzerà così solo su aeronautica ed energia, fonti rinnovabili comprese.
Dalla Germania, dove General Electric ha circa 10mila dipendenti, giungono notizie di una riduzione di 3mila lavoratori, anche se l’azienda continua a sottolineare come, per il momento, non si stia pensando al licenziamento di queste persone.
General Electric è solo l’ultimo di molti “conglomerati del 20esimo secolo” a decidere di ridurre drasticamente le proprie operazioni e di riorganizzarsi. Nel corso di questi ultimi anni conglomerati storici come Philips, A.P Moller-Maerks, ON, RWE, ThyssenKrupp e Hewlett Packard sono stati costretti a ridimensionare e scorporare alcune delle loro principali attività. Ad esempio, nel settembre 2016 A.P Moller-Maerks, conglomerato danese e più grande società al mondo per il trasporto marittimo tramite container, ha iniziato il suo lungo processo di separazione delle attività di trasporto da quelle energetiche.
Per Benjamin Gomes-Casseres, esperto di strategia organizzativa e professore di International Business presso la Brandeis University, General Electric è entrata in crisi principalmente per quattro motivi: scelte manageriali sbagliate, accumulazione di debito e pratiche amministrative opache, aumento della concorrenza nei paesi emergenti, affermazione della tecnologia dell’informazione.
Uno degli aspetti più interessanti di questa analisi riguarda la poca trasparenza di General Electric. Nel corso del 20esimo secolo aziende poli-settoriali come General Electric sono cresciute principalmente in quei mercati dei capitali più opachi, laddove il capitale non riesce sempre a spostarsi facilmente, rimanendo spesso allocato in investimenti poco produttivi e redditizi. Negli ultimi decenni, però, la crescita del “private equity” e una sempre maggiore pressione degli azionisti nei confronti della trasparenza e dell’efficienza aziendale, ha portato molti investitori a capire che, in realtà, la somma delle parti di un conglomerato vale meno delle sue singole parti. Anche General Electric, che per anni era riuscita a essere esclusa da questo semplice principio economico, vi ha, infine, dovuto fare ricorso.
Se da un lato molti accademici ed addetti ai lavori, come ad esempio Chris Zook, attuale partner ed ex capo del dipartimento di strategie globali di Bain & Company, ci spiegano da anni che il modello conglomerale classico è ormai morto, dall’altro stiamo assistendo alla nascita di nuovi conglomerati digitali. Basta pensare ad aziende come Alphabet, Amazon, Apple, Facebook, oppure ai leader tecnologici cinesi di Alibaba, Baidu e Tencent.
Tutte queste grandi aziende digitali, dopo essere riuscite ad aumentare, in pochi anni, i loro flussi di cassa operativi, stanno oggi acquistando decine di aziende più piccole. Nel corso di questi ultimi sei mesi, ad esempio, Amazon ha speso quasi $2 miliardi di dollari per comprare Ring (società di sicurezza) e PillPack (società digitale che opera nell’ambito farmaceutico). L’anno scorso, invece, tra le 11 acquisizioni fatte nel solo 2017, Amazon ha comprato Whole Foods Market (società alimentare) per poco meno di $14 miliardi di dollari.
Le altre grandi aziende digitali non sono certo state a guardare. Dall’inizio 2016 ad oggi Alphabet ha effettuato 32 acquisizioni, Apple 20 e Facebook “solo” 10.
Questa strategia sta avvenendo rapidamente e con un chiaro obiettivo organizzativo: costruire dei veri e propri ecosistemi digitali integrati. L’idea di fondo è che molto presto la tecnologica digitale e l’uso dei dati trasformeranno ogni settore della nostra economia.
Una differenza sostanziale tra il “vecchio” modello conglomerale ed i “nuovi” conglomerati digitali è che le acquisizioni di questi ultimi hanno portato raramente, fino ad ora, ad azioni antitrust. Buona parte delle società comprate e controllate da Alphabet, Amazon, Apple o Facebook tendono, infatti, a sovrapporsi solo marginalmente al mercato tradizionale e principale dell’azienda madre. Si pensi, ad esempio, ad Alphabet, casa madre di Google, al motore di ricerca di Google e alla tecnologia acquisita da Alphabet stessa per produrre autovetture autonome.
La crescita esponenziale delle cosiddette “big tech” ci porta però a capire che, in fondo, il modello conglomerale non è morto, ma si sta evolvendo e trasformando. L’affermazione della tecnologia dell’informazione è quindi il motivo cardine della crisi di General Electric. Così come Philips, grande e storico conglomerato olandese che nel 2014 ha deciso di separare l’azienda in due entità, anche General Electric deve, principalmente, la sua fortuna all’elettrificazione delle nostre società ed economie. Nonostante un vantaggio comparato nei suoi “core businesses”, negli ultimi decenni General Electric non ha saputo sfruttare le potenzialità offerte dalle nuove tecnologie. Di conseguenza l’azienda di Boston si trova oggi in una posizione di svantaggio ed incapace di gestire al meglio tutte le sue parti.
In un lungo articolo apparso su Bloomberg Businessweek ad inizio febbraio la crisi di General Electric viene paragonata al lungo ed inesorabile declino della famosa International Telephone & Telegraph Corporation. La speranza è che General Electric possa riuscire a trasformarsi, anche se la ristrutturazione sarà certamente lunga e probabilmente molto dolorosa. Il rischio, nel caso in cui tutto dovesse sfuggire di mano, è che l’icona del modello conglomerale classico diventi, per la gioia di molti professori di management, un nuovo caso Kodak o una nuova Nokia.
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