Dopo essere rimasta per mesi confinata negli editoriali di giornale e sui libri degli esperti di geopolitica, la guerra fredda commerciale tra Stati Uniti e Cina potrebbe, per la prima volta, avere un impatto concreto sulle nostre vite. Un effetto non certo drammatico, e limitato per ora alle attitudini di consumo. Ma le minacce di Trump di mettere Huawei in una blacklist si sono trasformate in un vero terremoto, lungo la faglia delle catene del valore globale. Trasformando alcuni dei più grandi produttori di componentistica e software da brand multinazionali in soldati di un impero, come ai tempi di Francis Drake e la regina Elisabetta I.
Esageriamo? Innanzitutto lunedì, a pochi giorni dalla decisione dell’amministrazione americana di soffocare Huawei, i produttori di chip come Intel, Qualcomm, Xilinx e Broadcom hanno annunciato di voler tagliare i ponti con la società cinese fino a data da definirsi. Ma la vera bomba è stata la notizia che a interrompere i rapporti con Huawei sarà presto anche Google, che fino ad ora aveva consentito al produttore di Shenzhen di funzionare con Android. In pratica, Trump ha indicato il nemico – Huawei è accusata di spionaggio industriale, come tante altre multinazionali cinesi – e i giganti della Silicon Valley hanno anticipato, con solerzia e un tempismo che non lascia adito a dubbi, le mosse della nazione a cui appartengono.
Il ban, di fatto, tarpa le ali al secondo produttore di smartphone al mondo, che negli ultimi dieci anni si era reso protagonista di una crescita portentosa, superando Apple e piazzandosi al secondo posto dopo la coreana Samsung. L’obiettivo, ora compromesso, era ed è tuttora quello di raggiungere il primato assoluto. Con il nuovo blocco commerciale disposto contro Huawei, del resto, si mette a rischio potenzialmente anche il giro d’affari di diversi colossi americani del microchip, come Micron, e l’espansione del network 5G nel mondo, inclusa la Cina. La quale potrebbe rivalersi sugli Stati Uniti, ad esempio, colpendo la produzione di iPhone nelle fabbriche sul suolo patrio. Non proprio una mossa indolore, considerando le decine migliaia di operai che sfornano prodotti Apple nel territorio cinese. Per ora Pechino non reagisce, ma le implicazioni del cambio di paradigma vanno analizzate nel lungo termine.
Per il momento, se implementata sul serio, la mossa di Trump potrebbe danneggiare anche il settore globale dei semiconduttori: Intel è il principale fornire di microchip per i server Huawei; Qualcomm gli fornisce processori e modem per i suoi smartphone; Xilinx gli vende microchip programmabili, e così via. Una catena che potrebbe spezzarsi e riconfigurarsi in modo imprevedibile. La quota di profitto che queste società ricavano da Huawei, va detto, è ancora esigua (tra l’1 e il 2 per cento) eppure tutte le società hanno perso lunedì sera tra il 2 e il 4 per cento in borsa. I produttori di componentistica europei che hanno contratti commerciali con Huawei per ora stanno a guardare, dicendosi pronti ad adattarsi.
Ma è chiaro che la guerra commerciale tra Washington e Pechino riguarderà presto anche il Vecchio Continente, tra paesi esplicitamente legali all’import cinese (la Germania) e altri che vorrebbero diventarlo (l’Italia). Nel caso nostrano, il ministro degli interni Salvini aveva rassicurato sul fatto che eventuali accordi commerciali nell’ambito della “nuova Via della seta” richiederanno un sovrappiù di attenzione per le informazioni strategiche riguardanti il nostro Paese. Sarà interessante vedere quali briciole potrebbero cadere sul Mediterraneo da un’eventuale boicottaggio più ampio degli americani. Probabilmente l’Europa tutta, incapace di rappresentare un player competitivo per la supremazia delle tecnologie di oggi e di domani, potrà diventare un terreno di sperimentazione e seduzione per i due poli globali, che faranno di tutto per accaparrarsi i nostri consumatori. Una guerra di prossimità giocata a colpi di app e di servizi.
Huawei, comunque, ha cercato di tranquillizare tutti dicendo di avere in magazzino abbastanza microchip e componenti vitali per lasciare tutto così com’è per almeno altri tre mesi, e che si stava preparando per tale eventualità dalla metà del 2018. In due modi: accumulando componenti importati, da un lato, e accelerando lo sviluppo di componenti propri. La speranza, nemmeno troppo nascosta, è quella di placare il conflitto con un armistizio, e riprendere gli accordi di un tempo. Ma la mossa dei giganti americani potrebbe avere l’effetto, nell’immediato, di favorire una escalation tra le superpotenze, non solo commerciale.
Secondo Simone Pieranni de Il Manifesto, “la sensazione è che l’odierna comunicazione di Google possa innescare una reazione a catena, portando all’affermazione di nazionalismi digitali in tema di piattaforme: sistemi operativi chiusi, app fornite da sviluppatori nazionali o di ‘area’… Siamo nel mezzo di una guerra tecnologica destinata a rivoluzionare i confini del mondo di domani”.
Che succede adesso? Sui device Huawei già in commercio, non molto. Ma nel giro di un anno gli aggiornamenti di Android e delle app Google potrebbero essere sospesi, e in quel caso gli smartphone Huawei potrebbero risultare più esposti ai rischi, e all’improvviso più vetusti. La domanda si fa ancora più interessante per i nuovi prodotti: come si regoleranno gli utenti al momento di dover scegliere uno smartphone nuovo di zecca? Accetteranno il rischio di ritrovarsi con un Huawei senza alcuna licenza Google, ma con soltanto la versione Aosp di Android, vale a dire quella open source che non prevede l’ecosistema di Google app che siamo abituati a usare, da Gmail a Maps, da YouTube a Calendar?
“Ci stiamo conformando all’ordine e stiamo valutando le ripercussioni. Per gli utenti dei nostri servizi, Google Play e le protezioni di sicurezza di Google Play Protect continueranno a funzionare sui dispositivi Huawei esistenti”, ha scritto in una nota Google. Mentre Huawei promette che “continuerà a fornire aggiornamenti di sicurezza e servizi post-vendita a tutti i prodotti Huawei e Honor esistenti per smartphone e tablet che coprono quelli venduti o ancora disponibili a livello globale. Continueremo a costruire un ecosistema software sicuro e sostenibile, al fine di fornire la migliore esperienza per tutti gli utenti a livello globale”.
Qualche mese fa Huawei aveva fatto sapere di stare lavorando a un sistema operativo fatto in casa, che potrebbe chiamarsi Kirin Os. La preoccupazione che le minacce di Trump potessero trasformarsi in guerra aperta aveva spinto il produttore ad aumentare gli investimenti per un’eventuale strategia autarchica. Dal quartiere generale di Shenzhen, fanno sapere, un sistema operativo pronto per rimpiazzare Android è quasi pronto. La prospettiva potrebbe essere dunque quella di una “balcanizzazione” del capitalismo tecnologico, con ogni area geopolitica fornita dal suo colosso di riferimento: come ai tempi della Guerra Fredda, con auto come le Trabant vendute soltanto all’interno dei mercati socialisti.
E se fosse proprio questo, potrebbe sostenere un complottista della geopolitica, il senso recondito della mossa di Google? Servire, cioè, a mettere gli utenti di fronte alle conseguenze concrete dei dazi, e a provocare insieme alla sparizione delle app una piccola rivolta contro il protezionismo? Difficile crederlo davvero, ma di fatto siamo di fronte una fase di ulteriore restringimento della globalizzazione, con tutte le conseguenze inquietanti ed eccitanti del caso.
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