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Come Martin Edwards dello United ha cambiato per sempre il mondo del calcio

Martin Edwards nel 2002 e Alex Ferguson (a destra) con la coppa assegnata ai vincitori del campionato inglese. (Credit: Michael Steele /Allsport).

Articolo tratto dal numero di luglio 2019 di Forbes Italia. Abbonati. 
Di Lorenza Scalisi

L’incontro con Martin Edwards avviene nel suo “ambiente naturale”, su un campo di gara. Un luogo affine per chi ha fatto del suo innato amore per lo sport, e per la competizione, un vero mestiere. Ma il green in questione è quello del Golf club Franciacorta, tappa di avvio di Arte&Golf, torneo internazionale per non professionisti in 20 tappe da qui a settembre, e non quello del prato dell’Old Trafford Stadium. Lo stadio dove Martin entrò per la prima volta da bambino, nel 1952, insieme al padre Louis Charles Edwards, in occasione del match Manchester United – Wolves: fu la prima di una serie infinita di presenze su quegli spalti, a tifare la squadra che, da lì a qualche anno, lui stesso avrebbe condotto ai successi più grandi, come il tanto ambito “treble” del ’99, che consiste nella vittoria del campionato, della coppa nazionale e della Coppa dei Campioni. Un incontro, quello fra gli Edwards e il Manchester United, legato al “momento più buio della squadra”, racconta Martin a Forbes.

Qualcuno ricorderà forse che il 6 febbraio del 1958 il Manchester subì una tragedia simile a quella del Grande Torino, perdendo ben otto giocatori in un incidente aereo a Monaco di Baviera. “Mio padre doveva essere su quel volo, e solo all’ultimo cambiò idea. Il giorno dopo il disastro, il suo amico Matt Busby, l’allenatore, salvo per miracolo insieme all’attaccante Bobby Charlton, lo chiamò e gli chiese di entrare nel Consiglio di amministrazione. Mio padre era un noto imprenditore, e in un momento così difficile per la società, serviva una visione pragmatica per riportarla alla svelta verso una rinascita”. E così fu, anche se l’epoca d’oro del team arrivò più avanti, e grazie proprio a Martin.

Martin Edwards. (Credit: Michael Steele /Allsport)

Si arriva al 22 marzo del 1980, giorno della sua elezione a chairman del club. Una nomina in virtù di ormai evidenti qualità di manager e imprenditore ereditate dal padre – che nel frattempo aveva costruito la seconda compagnia di macellazione delle carni più grande del Nord Inghilterra -, ma anche del gran numero di azioni del club che Martin aveva acquistato a partire dagli anni ’70. “Nel 1978, decisi di chiedere un prestito di 200mila sterline e ipotecai addirittura la casa, pur di comprare la quota che mi ero prefissato. A quell’epoca, far parte del board o esserne azionista era più una questione di prestigio che un investimento. Anzi. Quell’anno, i dividendi furono solo di 323 sterline. Il mio primo stipendio da chairman? 30mila sterline l’anno, 41mila nel 1981. Solo due membri dello staff, fra dirigenti e giocatori, guadagnavano più di 50mila sterline. Ricordo poi che nel 1965 mio padre offrì a Matt, a 1 sterlina l’una, la bellezza di quattromila azioni sulle 15mila totali che possedeva, pari al 50% del totale. Nel 1998, la sua famiglia le rivendette per 100 milioni. Cento milioni a fronte di 4.000 sterline!”.

Davanti a questi numeri, non resta che chiedergli come e perché sia cambiato così radicalmente il mondo del calcio. Da qui in poi, il diario dei ricordi di Martin entra nell’era moderna del football, iniziata anche grazie all’impronta e alle novità che lui seppe apportare dentro e fuori dal campo e dalla società.

“Fino al 1982, l’unica fonte di guadagno per la squadra erano i biglietti d’ingresso allo stadio, che era già di nostra proprietà dal 1910. Un’operazione, quella dell’acquisto dell’Old Trafford, che ha anticipando di quasi un secolo ciò che stanno facendo solo di recente i maggiori team. Quanto ai diritti televisivi, venivano trasmesse ben poche partite, tanto che ne derivavano solo 25mila sterline all’anno, destinate poi ai giocatori. All’epoca, andarono per esempio per la realizzazione di una piscina a loro uso esclusivo. Non c’era nessun altro introito. Pensai allora che bisognava mettere a frutto lo stadio. Nel 1980, deliberai un investimento di 1,5 milioni di sterline per migliorare e aumentare i posti a sedere, e nel 1989 ottenni il totale rifacimento della struttura. Nuovi bar, nuovi ristoranti, nuovi incassi. E quindi la possibilità di acquistare giocatori sempre più quotati. Ora avevamo una potenziale location per spettacoli sette giorni su sette. Quando proposi di ospitare spettacoli ed eventi sembrò un’eresia.

Martin Edwards

Ma nel 1991, ecco il concerto di Rod Stewart. Nel 1990”, prosegue Edwards, “acquistammo anche i negozi al suo interno, iniziando a guadagnare pure sul merchandising. Magliette, cappellini, scarpe, tutto ovviamente brandizzato da quello che nel frattempo, dal 1982, era diventato il nostro sponsor ufficiale, Sharp Electronics. A essere onesti, il primo club a ‘sporcare’ le magliette con un logo fu il Liverpool, nel 1979, poi seguimmo noi. Per quel primo contratto, Sharp pagò 500mila sterline per due anni. Sembrano passati secoli, se si confrontano queste cifre con quelle sottoscritte nel 2014 da Chevrolet: 79 milioni di euro a stagione, per ben 560 milioni di euro in sette anni. Il fornitore tecnico non è certo mai stato da meno: nel 2002, firmai un accordo con Nike da 455 milioni di euro per 13 anni. Dal 2015, è subentrata, o meglio, è tornata Adidas, con cui avevo già sottoscritto un contratto nel 1988, per 2 milioni di sterline e 4 stagioni. Ma ora, la fee è stellare: 75 milioni di sterline l’anno per dieci anni, pari a un record di quasi un miliardo di euro”.

Riassumendo: più soldi in cassa, giocatori più forti, traguardi più prestigiosi e maggiore appetibilità verso sponsor e diritti tv. Già, i diritti tv, che con il recente accordo con Sky hanno raggiunto l’incredibile cifra di 1 miliardo e 300 milioni di sterline per tre stagioni. Pensando alle 25mila sterline l’anno dei primi anni ’80 viene da sorridere.

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