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Che forma avrà la curva della ripresa? Cosa indicano le esperienze di Cina e Corea

Persone in fila a Seoul per un esame presso la General Insurance Association (Chung Sung-Jun/Getty Images)

La Cina e la Corea del Sud sono diventate una specie di sfera di cristallo per il resto del mondo: hanno dovuto affrontare il coronavirus prima di altri e prima di altri, seppur con metodi diversi, sono venute fuori dalla fase più acuta dell’emergenza. Che si tratti di un lockdown spietato che ha coinvolto una provincia da 60 milioni di persone, nel caso cinese, o di un piano di testing a tappeto e di ricorso tempestivo alle mascherine, nel caso coreano, i risultati dal punto di vista sanitario sembrano formidabili: una manciata di casi positivi al giorno – stando ai numeri ufficiali – e un tasso di mortalità inferiore a quello di molte altre nazioni avanzate.

In Cina, dove nel trimestre appena concluso l’economia si è contratta per la prima volta dal 1976, quando morì Mao Zedong, il mese scorso le fabbriche si sono rimesse in moto a un ritmo sostenuto: la produzione industriale del Paese, diminuita dell’1,1 per cento a marzo rispetto all’anno precedente e precipitata a febbraio quando l’epidemia era al suo picco, è cresciuta ad aprile del 3,9 per cento rispetto allo stesso periodo dodici mesi prima – meglio di quanto molti economisti si aspettassero. Da Pechino a Seoul la gente è tornata in strada, al lavoro, sui mezzi pubblici e nelle caffetterie.

Ma i dati sui consumatori sembrano dirci che qualcosa non quadra. Ad aprile, in Cina le vendite al dettaglio di aprile sono diminuite del 7,5 per cento su base annuale: una cifra impensabile persino durante le crisi del 1997 o del 2008. Stessa storia in Corea del Sud, dove la “domanda interna è probabile che non si riprenderà più di tanto questo trimestre, a causa delle persone che continuano a praticare il distanziamento sociale”, ha spiegato all’emittente “Cnn” Alex Holmes, economista di Capital Economics. In entrambi i Paesi le industrie focalizzate sull’export sono poi tentennanti a causa della domanda stagnante in Occidente, dove in molti casi il lockdown non è stato per nulla addolcito. La riapertura graduale delle società “che ce l’hanno fatta” non è seguita insomma da una altrettanto vigorosa rinascita dell’economia.

Queste considerazioni ci portano a una domanda che sta facendo grattare la testa a molti economisti: se non è chiaro che andamento avrà la rinascita delle nazioni, che forma dovrà avere lo stimolo finanziario post-epidemia? Fino a poco tempo fa, molti responsabili politici e dirigenti aziendali speravano in una ripresa dal coronavirus a forma di V: un crollo breve e grave seguito da un ritorno ai livelli di attività pre-disastro. Ora, tuttavia l’opinione più diffusa tra gli esperti è che non si tratterà di una ripresa rapida, ma di un processo che si protrarrà per diversi trimestri, se non per diversi anni.

Per questo il Wall Street Journal ha parlato della ripresa che ci aspetta ricorrendo alle lettere dell’alfabeto: sarà forse a L, con livelli di output persi che non verranno più recuperati? Oppure a W, cioè con una rapida ascesa seguita da un’altrettanto rapida ricaduta? E perché non a forma di swoosh, dal nome del logo Nike? Ossia con una grande recessione seguita da una ripresa dolorosamente lenta, con molte economie occidentali, tra cui Stati Uniti ed Europa, che non risaliranno ai livelli di produzione del 2019 fino alla fine del prossimo anno, o oltre.

“Abbiamo messo da parte tutti gli scenari che avevamo a forma di V”, ha detto Graeme Pitkethly, direttore finanziario di Unilever. “Probabilmente attraverseremo un lungo periodo di convivenza con Covid”. Le prospettive sono così incerte che le multinazionali hanno rinunciato a fornire agli analisti gli outlook per l’anno in corso. “Se da un lato si possono certamente fare dei paragoni con le perturbazioni meteorologiche o i disastri naturali o le recessioni, la realtà è che non abbiamo mai visto così tanti fattori in gioco allo stesso tempo su scala globale”, ha detto al “Wsj” Michele Buck, amministratore delegato di Hershey.

Tra i motivi di questo pessimismo c’è il fatto che, anche quando le restrizioni verranno allentate in tutto l’Occidente, molte attività su larga scala – come i concerti o lo sport professionistico – saranno evitate dalle persone come la peste. In molti casi saranno gli stessi imprenditori ad optare per restare chiusi: pensiamo ai ristoranti, dove le nuove regole sul distanziamento sociale ridurranno in alcuni casi di due terzi il numero possibile di coperti. O ai cinema indipendenti, alle caffetterie a conduzione familiare. O ad alcune sale concerti.

Ma quel che più conta è che saranno i consumatori – preoccupati per i rischi di un contagio che per mesi è stato descritto come subdolo e letale – ad avere l’ultima parola. Secondo un sondaggio di Swg, circa un italiano su due si ripromette di non usufruire di servizi come ristoranti e pizzerie ora chiusi a causa dell’emergenza Covid-19 anche quando saranno di nuovo aperti. Per quanto riguarda bar, pub e locali serali, si arriva a sei italiani su 10 che cercheranno di frequentarli il meno possibile, o di non frequentarli affatto. È una scelta che rappresenterà la vita o la morte di moltissimi esercizi commerciali.

Considerato quanto duro sarà far tornare le persone alle vecchie abitudini, dunque è probabile che anche nella Penisola la ripresa sarà tutt’altro che a forma di V: alcuni settori forse schizzeranno di nuovo verso l’alto, come le costruzioni, la produzione alimentare o la logistica; altri, come la ristorazione, l’intrattenimento e il turismo si riprenderanno molto più lentamente. Le aziende di beni di consumo prevedono che i consumatori passeranno a prodotti più economici e rinunceranno a spendere come facevano prima, per paura di restare senza soldi e con la deflazione che di fatto funge da incentivo a non spendere. Il settore immobiliare commerciale, peraltro già alle prese con hotel e rivenditori in difficoltà, dovrà fare i conti con spazi per uffici che resteranno sottoutilizzati, dato che molte aziende negli Stati Uniti e in Europa hanno già detto ai dipendenti di potersene restare a casa. La prolungata onda di disoccupazione, con le aziende che prevedono ulteriori licenziamenti in autunno, non fa che alimentare questo circolo vizioso.

In altre parole quello che traspare dalle economie asiatiche è che mesi o addirittura anni di distanziamento sociale si riverseranno come una valanga sulle economie. La possibilità che il virus ricompaia (con alcuni piccoli, nuovi focolai attivi in Corea e una certa incertezza degli esperti sui numeri cinesi) spinge molti analisti a diffidare di narrazioni consolatorie sul ritorno alla normalità. La Cina, uscita con cautela dall’ibernazione già a marzo, sta lanciando un segnale di come si vive in convivenza col virus: l’80 per cento dei suoi ristoranti ha riaperto i battenti, si legge sul “Wsj”, ma operano solo al 50-70 per cento della capacità, e circa il 15 per cento potrebbe non riaprire più. C’è una certa stabilizzazione, ma non è come prima.

Questo stato di cose sembra invitarci a ricorrere con ancora più solerzia al cosiddetto helicopter money: una bella cascata di pagamenti diretti che dalle banche centrali finiscono nelle tasche della gente. Una sorta di quantitative easing del popolo, come suggerito anche dall’hedge funder Ray Dalio. Questo tipo di sussidio non può essere liquidato quando si tratta di interi segmenti di popolazione che rischiano di ritrovarsi dalla sera alla mattina senza i soldi per mangiare, o per pagare l’affitto. I 1.200 dollari stanziati dalla Fed statunitense una tantum non impediranno che molti disoccupati, senza i patrimoni familiari e le case di proprietà tipici degli europei, allungheranno le file alle mense dei poveri che già sono chilometriche.

Ma va tenuto conto, da un punto di vista macroeconomico, anche  di quella grande fetta di popolazione occidentale che userebbe quei soldi per proseguire il suo isolamento sociale: ad esempio, campando di cibo d’asporto e ordinando tutto il resto su Amazon. Questo potrebbe avere due effetti: il primo è di natura sociale, con una classe di lavoratori della logistica e della grande distribuzione sempre più spremuta fino all’arrivo dei robot, da un lato, e una classe di insegnanti, creativi, lavoratori del terziario avanzato che potranno vivere con il mondo a portata di click.

Il secondo effetto dell’helicopter money potrebbe essere quello di rafforzare la posizione dominante degli oligopoli statunitensi dell’hi-tech, che assorbirebbero ancora più facilmente i “pesci piccoli” devastati dalla crisi e si consoliderebbero come infrastrutture ancora più imprescindibili delle nostre esistenze. Gli analisti sono già da tempo convinti di questa prospettiva, e stanno consigliando di investire proprio nei cinque big della Silicon Valley: Google, Apple, Microsoft, Alphabet e Amazon, posizionati ciascuno nel miglior modo possibile per rafforzare il proprio quasi-monopolio.

La difficoltà nel coordinare i vari piani di ripresa in Occidente sta nel fatto che questi non potranno essere fatti su misura per il mondo che c’era prima, ma per il mondo che verrà, e che possiamo solo definire con tratti grezzi. Un mondo che non consideri tabù la riconversione di intere categorie di lavoratori, che riorganizzi le università prima che ricomincino a sfornare soltanto potenziali rentier che vivono sulle spalle di chi deve andare a lavoro tutti i giorni, e soprattutto che immagini investimenti per ampliare e aggiornare la rete di trasporti pubblici, e rendere più credibili le istituzioni che invitano alla convivenza col virus.

Senza dimenticare che, alla fine, a decidere se come collettività torneremo a una parvenza di vita normale sarà la solita interazione tra educazione familiare e gruppi di interesse, tra affiliazioni politiche e teste pensanti. Il coronavirus, e la paura dello stesso, ha modificato e modificherà ancora i comportamenti della gente sul lungo periodo, qualunque cosa suggeriscono di fare i governi. Per sbloccare l’economia non basterà sbloccare le restrizioni, semmai si dovrà allentare il lockdown, almeno parziale, che perdurerà a lungo dentro di noi.

 

 

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