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Mattia Ferrari: chi è l’art director dietro ad alcune tra le più blasonate campagne del lusso

Mattia Ferrari

Se si da uno sguardo alla sua pagina Instagram, si possono trovare foto con top model di fama mondiale, copertine di magazine di moda, frame di eventi patinati e ritratti con amici designer o provenienti dal panorama musicale. E questo, perché anche se non ha ancora 30 anni, la vita del vicentino Mattia Ferrari è cambiata repentinamente da quando ha deciso di fondare l’agenzia Arnold Creative Communications, specializzata in servizi quali advertising, media communication e social media, che negli anni gli ha permesso di collaborare con maison del lusso quali Bulgari, Casadei, Ermanno Scervino, Dior e Versace, solo per citarne qualcuna. Mattia di mestiere fa l’art director, che per chi non fosse avvezzo al vocabolario della moda, è quella figura che si occupa di fare da collante tra un marchio e il cliente finale tramite progetti diversificati quali la direzione artistica delle campagne pubblicitarie cartacee o digitali, la realizzazione di short film per l’industria e la copertura di eventi. Tutto questo e non solo però perché, come la moda insegna, ogni maison ha la sua estetica comunicativa e raccontarla in pochi minuti non è affatto semplice: servono creatività, estro e una buona dose di rischio.

    Ph credit: Ignazio Sguera
    Ph credit: Ignazio Sguera
    Ph credit: Ignazio Sguera

Come ti sei appassionato al mondo della moda?

La mia passione per la moda nasce quando ero bambino e oggi, anche se non mi ritengo un fashion victim schiavo delle tendenze, coltivo l’amore per il bello. Curo ogni cosa nel minimo dettaglio, e questo è un concetto che va ben oltre la moda. I veri appassionati come il mio migliore amico Nicolò Beretta (Forbes Under 30 nel 2019, ndr), direttore creativo di Giannico e L’autre chose, si emozionano quando acquistano un nuovo modello Prada. Io, invece, indosso sempre look basici quasi come se mi mettessi io in secondo piano per dipingere la moda sugli altri. Ho instaurato una certa armonia con la moda, una sorta di accordo tacito tra me e lei dove non invadiamo i nostri rispettivi spazi e conviviamo con i nostri difetti come buoni amici. Ecco, questo è secondo me il giusto approccio per non diventare schiavi di un sistema che, alle volte, può diventare pericoloso.

Cosa fa esattamente un art director? E come è cambiata negli anni la sua figura?

L’art director è una figura professionale che deve avere una spiccata conoscenza della comunicazione visuale e deve sapere comunicare con le emozioni nell’approcciarsi al cliente finale. Deve saper scegliere il team adatto per ogni progetto, definire la storia da raccontare e confezionare il tutto con una finalità di marketing ad hoc. Come art director posso declinare la mia professione in diverse sfaccettature della sfera moda-intrattenimento: posso dedicare la mia fantasia a una borsa come ho fatto con Versace, posso pensare a come rendere magica l’alta gioielleria di Bulgari, ma posso anche creare una storia attorno a un’attrice o modella, curando i loro look da mattina a sera. Negli anni credo che questo lavoro abbia subito un’evoluzione organica. Prima del boom dei social media, ad esempio, l’art director lavorava su basi più astratte e storie concettuali perché i giornali rappresentavano ancora dei documenti fotografici di rilievo. Ora, con strumenti come Instagram, l’art director deve comunicare un’immagine più fresca, più immediata: tutto dura il tempo di un like o di una story quindi non c’è più spazio per l’astrattismo. Sono comunque convinto che l’evolversi delle cose abbia contribuito a creare nuova bellezza, altrimenti saremmo ancora fermi alle foto in bianco e nero…non credi? Mi piace pensare e ispirarmi alla storia ma dall’altra parte sono contento di far parte di un’era tecnologica dove poter dare spazio alla mia fantasia.

Come è stato approcciarsi a un settore notoriamente competitivo e poco inclusivo come quello del lusso? 

Qui si potrebbe scrivere un libro di aneddoti! (ride, ndr). Mi sono trovato travolto da un’onda che un po’ alla volta mi ha fatto approdare nell’isola dove mi trovo ora. Sono partito alla volta di Los Angeles all’età di 16 anni, poi a 19 mi sono trasferito a New York. Sono sempre stato incosciente, non ho mai fatto le cose per compiacere gli altri: preferivo seguire il mio istinto e sbagliare. Ho avuto la fortuna di viaggiare molto e confrontarmi con persone diverse, questo mi ha permesso di cambiare il mio modo di pensare, di vedere la vita, e capire quali fossero i miei obiettivi. La mia esperienza è fatta di strade diverse: a New York lavoravo come pr in discoteca mentre i primi anni a Milano mi occupavo del mercato immobiliare. In realtà, tutta questa alta marea, per un motivo o per un altro, mi ha sempre avvicinato al settore del quale mi occupo oggi. Non credo sia stata questione di coincidenza, ma a quel tempo, forse da lontano, vedevo già un faro all’orizzonte…

Per creare una campagna, un lookbook quali sono gli step da seguire? Da cosa ti lasci ispirare?

 Non c’è un manuale guida. Sicuramente ci sono alcune regole standard da rispettare ma le ispirazioni arrivano da qualsiasi cosa. La mia vita è come una montagna russa, piena di emozione ed esperienze, cambio continuamente visuale del mondo, dei colori, della natura. Un’anima dannata che non si ferma mai. Nascondo ogni esperienza dietro i miei occhi, ne faccio tesoro e per ogni progetto scelgo quale panorama o immagine potrebbe essere più adatta. Nel lavoro che svolgo, spesso il brand vuole la mia visione, chiedendomi allo stesso tempo di rispettare il suo dna stilistico. Quindi è un lavoro che va fatto a quattro mani, con lo scopo di realizzare l’immagine e la visione migliori per ottenere il risultato finale.

Durante il lockdown si è parlato tanto di come l’industria della moda debba cambiare. Cosa ne pensi?

Volendo rimanere positivi, la situazione che abbiamo vissuto potrebbe aver messo un punto fermo a un sistema che girava a vuoto come una pallina impazzita in un flipper. Mi spiego meglio. Il lockdown ci ha tolto di colpo tutto in maniera ruvida ma democratica, portandoci a fare i conti con quello che non avevamo mai avuto: il tempo. Che ci è servito per ricostruire un puzzle per metà distrutto e per metà in via di distruzione. Nel mondo della moda aleggiava un clima di caos assoluto, non si distinguevano nemmeno le stagioni delle collezioni, ogni brand aveva ormai 8 collezioni all’anno, budget improponibili versati su personaggi che millantavano un finto seguito, ritmi serrati durante le fashion week che giravano attorno a ingranaggi arrugginiti. Credo che ora siamo pronti a ripartire da zero, a mettere in primo piano la qualità invece della quantità e a ridare alla moda quella magia che tanto merita.

Quali sono stati finora i lavori che ti hanno reso più orgoglioso e perché?

Il mio lavoro preferito è una delle campagne che ho realizzato per Versace. Mi ha divertito molto e racconta un pezzo di me parlando dell’importanza di valori umani quali l’uguaglianza e l’attaccamento alle proprie origini con un american touch che sento molto vicino al mio stile. Mi sentirei un po’ presuntuoso a definirmi orgoglioso di un mio lavoro, diciamo che in generale sono contento e grato di dove la vita mi sta portando.

Cosa significa per te creatività?

La creatività è un mondo parallelo. Alle volte alcune persone mi si avvicinano e mi dicono quanto gli piacerebbe essere creativi. In realtà tutti lo siamo; tutti siamo dotati di fantasia e tutti viaggiamo con la mente. Durante la nostra fase onirica usiamo la nostra creatività subconscia per creare quello che poi la mattina definiamo sogno. Per dare spazio alla propria creatività bisogna lasciarsi andare e oltrepassare il limite della normalità. La creatività è superare se stessi con la mente e dare vita alla propria visione con i propri colori.

Che peso ha il digitale nel tuo lavoro e come credi cambierà gli scenari del lusso alla luce degli ultimi eventi?

Il mio lavoro è ormai quasi tutto digitale e la maggior parte delle mie collaborazioni vengono publicate nel mondo dei social media. In realtà, il digital ha aiutato molto il mondo della moda e del lusso durante questo periodo buio. Provate per un secondo a immaginare: cosa sarebbe stato il lockdown senza Instagram? Saremmo stati rinchiusi in casa dove l’unico mezzo di comunicazione disponibile, la tv, trasmetteva solo aggiornamenti sul coronavirus. Il digital, insomma, ha aiutato l’industria a resistere. Sono fiducioso che tutto ripartirà presto, certo, alcune sfilate le vedremo per un po’ ancora sui social media come è stato di recente per quelle di Dior e di Valentino.

Cosa pensi del fatto che oggi molte maison del lusso affidano la loro strategia comunicativa ai social per attrarre i millennials? La moda potrebbe diventare più democratica?

La moda non è mai stata democratica e non credo mai lo sarà. Alla moda e’ sempre stato attribuito un atteggiamento snob e arrogante, per difendersi dalle accuse di essere effimera. Secondo me il fatto di includere i millennials è, prima di tutto, una mossa di marketing perché questi ultimi trascorrono la loro vita attorno ai social media e quindi la comunicazione è immediata così come la vendita al pubblico. Aggiungo poi che i millennials risultano al pubblico più spontanei e si rapportano in maniera più fresca e meno formale di fronte alla telecamera, avvicinando un po’ tutti a questo mondo che da fuori sembra irraggiungibile. Le interviste con parole sofisticate spaventano, allontanato. Un ragazzo che parla su Instagram crea invece empatia ed è più facile immedesimarsi.

Quali sono i tuoi obiettivi futuri?

Cerco di capire dove mi sta portando questa spinta, ho le idee chiare ma non voglio precludermi nessuna strada. Non voglio mai smettere di crescere professionalmente e non voglio avere dei limiti. Mi è stata proposta la direzione creativa di una linea di aerei e anche se questo non rientra nella mia tecnica mi piacerebbe tuffarmi in un’esperienza del genere in maniera incosciente ma pur sempre professionale.

Quali sono i personaggi o brand con cui vorresti collaborare?

Moltissimi. Ho vissuto a Hollywood ma ho ancora il mito di Hollywood come se non ci fossi mai stato. Quindi mi piacerebbe molto curare l’aspetto creativo di un film, di una serie su Netflix, mi piacerebbe lavorare con marchi come Chanel e Saint Laurent. E mi piacerebbe sapere cosa pensa Anna Wintour del mio lavoro. Last but not least, vorrei curare una sfilata in riva al mare per Dior.

Il consiglio professionale più utile che hai ricevuto finora?

‘Devi stare tranquillo sul set ed essere sempre puntuale’. Non ci sono mai riuscito ma almeno ci provo!

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