Joe Biden alla Casa Bianca: le cancellerie europee tirano quasi tutte un notevole sospiro di sollievo. Dialogo, cooperazione, e anche nel dissenso comportamenti più prevedibili: dovrebbe cominciare tra i partner una fase di rinnovata intesa. Indizi favorevoli si vogliono cogliere un po’ ovunque. “È l’amministrazione più francofona della storia!”, scrive su Twitter l’ex ambasciatore francese negli Usa. Ed è vero: Antony Blinken, futuro segretario di Stato, e John Kerry, inviato speciale sul clima, amano la Francia e ne parlano fluentemente la lingua. Ma esaurito l’approccio abrasivo dell’America First, alcuni attriti tuttavia restano, e anche molto profondi. Ad esempio, pochi temi sono tanto ingombranti quanto il problema della sovranità digitale. Protezione dei dati, privacy dei cittadini, e il potere dei colossi digitali e la necessità di tassarli in modo appropriato.
La prima avvisaglia di conflitto giunge proprio dalla Francia. Parigi ha appena annunciato di voler riscuotere milioni di euro dai gruppi tecnologici statunitensi, tra cui Facebook, Google e Amazon. Sembra entrare quindi in vigore la digital tax francese, sospesa lo scorso gennaio, quando Macron aveva concesso più tempo alla trattativa (in seno all’Ocse) per istituire una tassa minima su scala globale. Poi gli Stati Uniti si sono tirati fuori a giugno da quel negoziato, e ora evidentemente la Francia ha perduto la pazienza.
La tregua è finita. E a quanto pare anche l’Italia vorrebbe fare la sua parte: sta per assumere la presidenza del G20 e rilancia l’impegno per una digital tax multilaterale, che coinvolga le economie dei maggiori paesi industrializzati. Il piano dell’Ocse è tassare le multinazionali dove realizzano le vendite, anziché dove registrano le filiali (di solito, in paesi a fiscalità agevolata). L’intesa va raggiunta nei primi mesi del 2021, ha detto il ministro Gualtieri, altrimenti che l’Europa proceda autonomamente. Il rischio concreto però è scatenare rappresaglie. È molto probabile che l’amministrazione uscente Trump colpisca subito Parigi con un’imposta del 25% su un miliardo e 300mila dollari di esportazioni francesi in America. C’è da dire che anche l’Italia ha introdotto la sua digital tax, risale alla legge di bilancio 2019, ma a questo punto pare voglia far slittare di un anno (il 2022) la riscossione dei pagamenti, proprio per scongiurare vendette da parte degli Stati Uniti.
L’amministrazione Trump è sì agli sgoccioli, ma durante l’estate ha raccolto un dossier su tutti i paesi che stanno adottando digital tax, e ora potrebbe punirli prima della staffetta con Biden. Cosa farà quindi il nuovo presidente? “Non credo che Biden elimini questi dazi, se li ha approvati qualcuno prima di lui”, ha appena dichiarato un funzionario del Tesoro americano. “La nuova amministrazione potrà pure essere meno aggressiva nel minacciare nuove tariffe, ma sfrutterà comunque quelle già esistenti come base negoziale”.
A Bruxelles sanno bene quali sono i punti critici nel rapporto transatlantico e dove invece c’è più sintonia. Ci si scontra, oltre alle tasse, su privacy e trasferimento di dati personali. Lo scorso luglio la Corte di giustizia europea ha invalidato il cosiddetto Privacy Shield: un meccanismo concordato tra EU e Stati Uniti per trasmettere dati di utenti di società digitali come Facebook da una sponda all’altra dell’Atlantico. La questione di fondo è che secondo la Corte la privacy negli Usa non è abbastanza stringente. Il flusso dei dati, e cioè la base del business enorme delle società tecnologiche, è stato comunque in parte protetto da dispositivi legali di compromesso, le clausole contrattuali standard. In pratica bisogna verificare caso per caso se aziende e paesi garantiscono sufficiente protezione per i dati dei cittadini europei. Washington ha gradito molto poco.
Dove ci sono più somiglianze d’intenti invece è sul terreno dell’antritrust. Qui c’è un rapporto recente del Congresso americano che prende a prestito molte idee già propagandate da Bruxelles su come limitare il potere della grande tecnologia. Per esempio, combattere l’abitudine di questi giganti di favorire i propri servizi a scapito di quelli dei concorrenti. Nemmeno l’approccio sulla regolamentazione delle conversazioni online è così distante. Come in Europa, c’è un crescente accordo in America sulla necessità di una legislazione che spinga le società di social media a fare di più per ripulire le loro piattaforme da discorsi che incitano all’odio.
Una forma di compromesso a largo spettro quindi non è impossibile. Lo stimolo verrebbe dal comune interesse di fronteggiare modelli totalitari come quello cinese. Lo fa notare l’Economist in un articolo uscito di recente, ed è anche il tema di un documento di prossima diffusione preparato dalla Commissione Europea, probabilmente anche come risposta all’idea del summit delle democrazie lanciata dal neo eletto Joe Biden. Uno dei perni di quest’alleanza secondo Bruxelles dovrebbe essere la capacità di smussare le divisioni normative sull’economia digitale. Non è facile, anche perché il settore tecnologico americano oggi vale più di tutti i mercati azionari dei 27 paesi dell’Europea messi insieme. È chiaro quanto i due blocchi abbiano priorità diverse.
Ma un grande patto tra democrazie è la cosa più ragionevole. L’America dovrebbe ottenere garanzie sul fatto che gli organismi di regolamentazione prendano sul serio i suoi interessi. In cambio riconoscerebbe la privacy europea e altre preoccupazioni normative. Oltre a concedere che i campioni della tecnologia vengano adeguatamente tassati.
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