Articolo a cura di Fabio Cagnola e Filippo Ferri
Prima della nota riforma del Titolo V, il concetto di “ambiente” non era neppure contenuto all’interno della Costituzione italiana. A dirlo oggi, nel 2021, è oggettivamente difficile persino crederci. Eppure è così ed è un segno, clamoroso, di quanto i tempi siano cambiati dal secondo dopoguerra ad oggi. Molto semplicemente, nel 1948 le esigenze e le priorità del Paese erano ben altre (la ricostruzione, il rilancio economico, ecc.). Per l’attenzione all’ambiente non c’era spazio.
Questo “ritardo” storico ha per lungo tempo fatto sentire le sue conseguenze sulla legislazione italiana. È un dato di fatto che, per moltissimi anni, l’ambiente – inteso ovviamente in senso lato – è rimasto pressoché sguarnito di un vero ed efficace apparato di norme sanzionatorie in ambito penale. Anche quando queste norme sono state introdotte, poi, spesso se ne è denunciata la inadeguatezza a garantire una effettiva efficacia deterrente e repressiva, soprattutto a causa delle sanzioni previste, giudicate molto (forse troppo) contenute. In questo senso, ripetute critiche sono state mosse al Testo Unico dell’Ambiente (introdotto con il decreto legislativo 152/2006). La materia è stata letteralmente rivoluzionata dalla legge 22 maggio 2015, n. 68, con la quale è stata radicalmente modificata la disciplina penale dell’ambiente. E con i nuovi “eco-reati” non si scherza.
Il nuovo assetto di norme (dall’art. 452-bis all’art. 452-quaterdecies del codice penale) prevede pene altissime, fino a quindici anni di reclusione nei casi più gravi. Il quadro repressivo è ancora più pesante, se si considera come queste fattispecie non colpiscano soltanto le persone fisiche, ma anche le società. L’art. 25-undecies del decreto legislativo 231/2001 estende la responsabilità “da reato” delle persone giuridiche anche ad alcuni “eco-reati”. Le conseguenze per le persone giuridiche, peraltro, possono essere, per certi versi, ancora più gravi rispetto a quelle per gli individui, in quanto non si limitano alle sole sanzioni pecuniarie (già di per sé molto elevate), ma si estendono in certi casi alle temutissime sanzioni interdittive, oltreché alla confisca. Senza considerare, ovviamente, le conseguenze extragiuridiche in termini di danno di immagine. Insomma, se per anni – ma sarebbe più corretto dire per decenni – l’attenzione all’ambiente non è stata la priorità del legislatore italiano (e, di conseguenza, le imprese non sono state spinte ad occuparsi troppo della problematica), adesso il tema è diventato una priorità.
La parola d’ordine, per l’imprenditore, deve, anzi può essere una sola: prevenzione. Dimenticarsi delle problematiche ambientali può determinare il pagamento di un prezzo altissimo, tale, in certi casi, da poter mettere a repentaglio addirittura la continuità aziendale. Intervenire ex post, una volta che le autorità pubbliche hanno elevato una contestazione, è difficilissimo e, peraltro, non sempre possibile. È, insomma, vitale intervenire prima che conseguenze penali possano palesarsi all’orizzonte.
In che modo? Qui la parola chiave è un’altra: compliance. Alle volte capita che l’imprenditore percepisca questo concetto – anch’esso per lungo tempo sconosciuto all’ordinamento e alla realtà imprenditoriale italiana – come un “costo inutile” oppure come un “peso” non necessario rispetto alle esigenze del business. Ma non è così. Quella che può sembrare una spesa non indispensabile è invece un cruciale investimento per il futuro, l’unico modo per proteggere e “schermare” la propria impresa contro rischi penali che, come visto, potrebbero rilevarsi gravissimi. L’adozione e la costante implementazione di modelli di organizzazione e controllo, la presenza di un reattivo ed attento organismo di vigilanza, un’efficace sistema di governance, effettivi canali di reporting e un forte ufficio legale interno: sono alcuni degli ingredienti decisivi per proteggere l’azienda.
Ciò, peraltro, non vale solamente per la materia ambientale, ma per tutti gli ambiti di operatività di una azienda, visto che il novero dei c.d. reati-presupposto (ovverosia quelli che possono fare scattare la responsabilità della persona giuridica ai sensi del “decreto 231”) è in continua espansione. Recentissima – e non preoccupante della materia ambientale – è stata ad esempio l’inclusione in tale catalogo dei reati tributari.
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