Si è parlato tantissimo dell’inflazione, ma il presidente Joe Biden sta lasciando una traccia molto più profonda sull’economia americana. Di fronte alle due grandi sfide di questo secolo – il cambiamento climatico e la competizione tecnologica con la Cina – Biden tenta di ricalibrare il modello di crescita statunitense e lo fa dando allo Stato un ruolo cruciale, come non accadeva da decenni. Un potere rinnovato di spesa e di guida nella scelta degli investimenti interni e nella gestione del commercio estero. Gli analisti e i commentatori parlano di un vero ritorno della politica industriale, per stimolare, in questo caso, l’innovazione in alcuni settori chiave della battaglia geopolitica con Pechino.
Alcune leggi dimostrano questa traiettoria, a dire la verità già tracciata da Trump con i dazi e l’embargo a Huawei, il colosso cinese delle telecomunicazioni. Cominciamo dal decreto più recente: il 7 ottobre l’America ha emesso nuove feroci restrizioni sulle esportazioni verso la Cina di semiconduttori avanzati e relative apparecchiature. Più che un embargo, una repressione totale dell’industria dei chip di Pechino. Le altre leggi, e sono tre, si occupano invece del fronte interno. La prima è un poderoso provvedimento (1.200 miliardi di dollari) per rinnovare le infrastrutture degli Stati Uniti. La seconda, approvata ad agosto, è un pacchetto da 370 miliardi di dollari per l’energia verde, che include molti soldi per la ricerca ed è riempito di sussidi e crediti di imposta da spendere in dieci anni in manifattura made in Usa. Il terzo si chiama Chips and Science Act: 280 miliardi di dollari per stimolare l’innovazione scientifica e la produzione interna di semiconduttori, senza i quali la manifattura tecnologica si ferma.
La sfida Usa-Cina
Sono questi i campi decisivi della sfida con la Cina. Gli Usa vogliono rafforzarsi internamente, dipendere meno dall’estero e al contempo tarpare le ali a Pechino. Con la ripartenza dopo la crisi dovuta al Covid c’è stata una penuria enorme di semiconduttori che ha colpito in tutto il mondo la fornitura di automobili, apparecchi elettronici e altri componenti della manifattura. Per questo, e per via delle attuali tensioni geopolitiche, i Paesi stanno provando ad accorciare le catene di fornitura e incentivano la produzione interna. Gli Stati Uniti puntano a essere più competitivi anche nei chip di ultima generazione, quelli più piccoli di 5-10 nanometri, su cui Taiwan ha quasi il monopolio. La Cina, per quanto abbia fatto progressi, è parecchio distante dai migliori produttori di Taipei. Un motivo in più per Xi Jinping, temono gli analisti, per mettere le mani sull’isola ribelle, anche se un attacco rischierebbe di bloccare la produzione da cui la Cina stessa dipende ancora. I taiwanesi, del resto, chiamano la propria industria di semiconduttori huguo shenshan, cioè ‘montagna magica che protegge la nazione’.
L’ascesa di Taiwan è legata al formarsi di sofisticate catene globali di valore. Nel tempo tante società americane, tra cui Apple, hanno appaltato all’isola la produzione dei loro microchip. E così la Taiwan Semiconductor Manufacturing Company (Tsmc) è diventata il più grande produttore di chip a contratto del mondo. Controlla il 90% del mercato dei chip più moderni, essenziali per far funzionare i dispositivi informatici più sofisticati. La statunitense Intel e la coreana Samsung sono i concorrenti diretti. Ma la loro capacità esecutiva, soprattutto nel caso di Intel, è inferiore a Tsmc.
C’è però un dettaglio importante: sebbene l’America sforni un basso numero di semiconduttori più avanzati, le aziende statunitensi mantengono il primato nel design: tendono a progettare i chip, lasciando poi a Taiwan il compito di produrli. Ma la globalizzazione si scontra con una geopolitica sempre più tesa. Appaltare troppo all’estero è considerato un rischio, almeno nelle industrie più strategiche. Il primo mandato di Biden, così, si è svolto all’insegna del reshoring, l’idea di riportare a casa la manifattura. Una strategia che presenta due vantaggi, almeno in teoria: meno rischi e più posti di lavoro (su quest’ultimo punto molti economisti sono scettici).
Il ruolo dell’Europa
E l’Europa cosa fa nel frattempo? Anche noi cerchiamo di raggiungere un’autonomia strategica nei settori vitali, tra cui i chip. La Commissione europea ha approvato a febbraio un piano da 43 miliardi di euro per creare una filiera interna di semiconduttori. Obiettivo: raddoppiare la produzione entro il 2030. La maggior parte del pacchetto, spiegano gli analisti, verrà destinato proprio al finanziamento dei cosiddetti ‘mega fab’, cioè gli impianti di microchip all’avanguardia. Intel spenderà quasi 20 miliardi di dollari per alcune fabbriche in Germania. C’è chi fa notare, però, che in un punto della catena del valore l’Europa è già leader. Asml, un produttore olandese, ha il monopolio della litografia avanzata necessaria per realizzare i chip più piccoli e sofisticati.
Altri economisti sottolineano i limiti di una politica industriale troppo spinta. Non è detto, infatti, che i governi sappiano scegliere in modo lucido i settori, le aziende e le tecnologie a cui dare sostegno. E tuttavia ormai è chiaro che la competizione geopolitica sta rilanciando il ruolo degli Stati: America e i suoi alleati da una parte, Cina dall’altra. Il risultato di tutto questo è un boom degli investimenti nell’innovazione. Nel 2020, spiega l’Economist, la spesa mondiale in ricerca e sviluppo ha superato i 2.100 miliardi di dollari: oltre il 2,5% del Pil globale, un record.
A questo punto va fatta una precisazione: è vero che uno dei tratti distintivi del boom è il coinvolgimento dei governi, che finanziano la ricerca e sviluppo e sovvenzionano la produzione di alcuni beni ad alta tecnologia, invece di lasciare questo compito al mercato dei capitali. In Cina il partito comunista ha messo in chiaro le gerarchie e le priorità. Xi Jinping comanda e ai colossi del tech – che per anni si sono allargati quasi liberamente – ha chiesto meno videogiochi e più intelligenza artificiale, chip e tecnologia verde. Anche negli Stati Uniti qualcuno ha cominciato a essere deluso dal libero mercato, che non sempre indirizza gli investimenti nei punti giusti.
“Con i microchip ci siamo ritrovati scoperti”, ha detto Eddie Bernice Johnson, un democratico del Texas che presiede il comitato che ha redatto la legge sui semiconduttori, “ed era un imperativo di sicurezza nazionale”. Ma è altrettanto vero che le differenze di approccio tra Cina e Occidente restano enormi. In Cina lo Stato ha un ruolo molto più profondo nell’orchestrare gli investimenti. Li indirizza verso le industrie considerate più strategiche, dove far fiorire l’innovazione. L’Occidente, al contrario, fa affidamento su una rete più diffusa: aziende private, università, organizzazioni non profit che sono più libere di fissare i propri obiettivi.
Due sistemi a confronto
Non c’è dubbio che il metodo cinese abbia ottenuto risultati notevoli. Ha raggiunto e superato l’Occidente in alcune tecnologie, in cui la scienza però tende a essere già matura. Dove invece bisogna generare scoperte in territori di frontiera, l’autoritarismo della Cina potrebbe essere meno efficace. L’Economist fa notare che, secondo un rapporto pubblicato a settembre dallo Special Competitive Studies Project, un gruppo di ricerca organizzato dall’ex ceo di Google Eric Schmidt, la Cina è dominante nelle telecomunicazioni 5G, oltre a produrre circa l’80% delle batterie al litio del mondo. Secondo GaveKal Dragonomics, una società di ricerca specializzata in economia e politica cinese, ci sono evidenze che indicano come la Cina faccia meglio “in prodotti dove la manifattura è complessa ma la scienza è matura, ad esempio le batterie”.
L’Occidente, invece, è avanti su biotecnologie, cloud computing e intelligenza artificiale. Un’altra prova di superiorità del nostro modello è stata la risposta scientifica alla pandemia. Xi Jinping si è ostinato a produrre i vaccini internamente, con risultati meno buoni della controparte occidentale. Soltanto a settembre un’azienda cinese ha sviluppato un vaccino altrettanto efficace, ed è uno dei motivi che spiegano quei lockdown draconiani anche in presenza di pochi casi. Il gruppo di Schmidt avverte però che gli Stati Uniti e il resto dell’Occidente non possono riposare sugli allori. Secondo il gruppo ci sarà un lasso di tempo, tra il 2025 e il 2030, in cui verrà decisa la leadership tecnologica globale: il rischio è che Stati Uniti e nazioni alleate non siano capaci di mantenere il loro vantaggio sulla Cina.
L’ex ceo di Google lamenta una certa mancanza di coordinazione e un ritardo nello stabilire gli obiettivi strategici. Si riconosce come le società di venture capital abbiano dato il via a molte innovazioni, ma con un limite: la priorità era fare soldi, non sviluppare forza e sicurezza nazionale. “L’ecosistema tecnologico si è evoluto senza riferimento a una rivalità geopolitica e con relativa indifferenza per le implicazioni strategiche degli sviluppi”, afferma un documento recente dello Special Competitive Studies Project.
Gli investimenti in ricerca
La cosa che più balza all’occhio è la quantità di soldi destinati alla ricerca e sviluppo (r&s), intesi come il totale delle risorse mobilitate dalle aziende, degli investimenti in capitale di rischio, dei finanziamenti diretti del governo e delle sovvenzioni. C’è stata una rincorsa molto rapida della Cina, che ora tallona gli Stati Uniti. Nel 2008, a parità di potere d’acquisto, la Cina ha speso in r&s un terzo rispetto all’America e circa la metà dell’Europa. Ma nel 2014 aveva superato l’Europa e nel 2020 la sua spesa era l’85% di quella americana. Oltre alla crescita rapida, il sistema cinese – come già detto – sembra più coordinato e capace di indirizzare gli investimenti verso le industrie strategiche, anche dietro un forte impulso statale. In linea con le direttive del governo, per esempio, la quota di venture capital cinese dedicata ai settori strategici (tra cui intelligenza artificiale, semiconduttori, biotech e calcolo quantistico) è balzata dal 15% nel 2019 al 35% nel 2020. Nell’ultimo decennio invece la quota americana, scrive l’Economist, è passata dal 10 al 20%, quindi una crescita più bassa.
C’è però un rovescio della medaglia, che gli esperti fanno notare e di cui è consapevole probabilmente anche il partito comunista. Un metodo di innovazione rigido e top-down non sempre paga. Alcuni studi econometrici indicano che la spesa cinese in ricerca e sviluppo stimola un aumento della produttività inferiore rispetto a Taiwan. In parte ciò potrebbe essere dovuto al sostegno del governo alle imprese statali, meno efficienti. Altri studi suggeriscono che in Cina la ricerca e sviluppo aziendale è molto meno produttiva di quella statunitense. Le autorità di Pechino sembrano voler correggere queste lacune. Cercano di ridurre la centralizzazione e hanno aumentato i finanziamenti per la ricerca scientifica di base, nel tentativo di essere più innovativi. Secondo gli esperti, infatti, la ricerca di base è decisiva per le scoperte scientifiche rivoluzionarie, mentre la ricerca applicata serve per portare le innovazioni sul mercato.
L’isolamento cinese
I cinesi sembrano avere trascurato un po’ questo aspetto: secondo un rapporto del National Center for Science and Engineering Statistics, un’agenzia statistica federale americana, mentre negli Stati Uniti il 17% della spesa per ricerca e sviluppo è destinata alla ricerca di base, la quota della Cina si limita al 6%. Pechino vuole portarla all’8% nel 2025. Altri errori, però, sono legati all’irrigidimento ideologico di Xi Jinping, ed è difficile porvi rimedio. La mano dura contro i giganti tecnologici, la cui influenza evidentemente insidiava quella dello governo, ha provocato un calo degli investimenti in capitale di rischio. Mentre i duri lockdown hanno reso la vita poco piacevole a molti stranieri di talento. Immigrati capaci sono fondamentali per un Paese innovativo. In questo gli Stati Uniti restano imbattibili.
La Cina, invece, si sta isolando. È calato di molto il numero di ragazzi cinesi che studiano all’estero. C’è poi un altro aspetto: nessun Paese alleato di Pechino è particolarmente bravo a innovare. L’America può contare su una vasta rete di nazioni sviluppate, tra cui Regno Unito, Giappone, Francia, Germania, Corea del Sud e Italia. Il totale della loro spesa in ricerca e sviluppo è molto superiore a quella cinese.
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