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L’era del de-risking: come l’Occidente vuole limitare i pericoli dell’esposizione verso la Cina

Il principio, in teoria, è facile. Tutto ruota attorno a una domanda: che rapporto stabilire con l’economia cinese? C’è chi dice che è sconsigliabile avere legami troppo profondi con paesi potenzialmente rivali. La dipendenza europea dal gas russo si è rivelata un errore esemplare, da non ripetere più. Il libero flusso di merci e prodotti diventa un fattore di rischio in un mondo che potrebbe dividersi in blocchi. Ed ecco che la guerra in Ucraina ha messo in crisi i pilastri di una delle economie più globalizzate d’Europa, la Germania, che contava su energia a basso costo dalla Russia e grandi esportazioni verso la Cina.

Proprio riguardo alla Cina, soprattutto gli Stati Uniti hanno parlato a lungo di de-coupling (‘disaccoppiamento’), cioè dell’idea di separare in modo drastico le economie di paesi nemici. Il piano di cesura è cominciato con Donald Trump ed è proseguito con Joe Biden: opera sua l’embargo più radicale mai lanciato dagli Usa contro la tecnologia cinese. Il problema, però, è che non tutti sono d’accordo, e anche dentro la società americana c’è chi considera il de-coupling un progetto troppo estremo, o semplicemente impossibile. Basti ricordare che l’anno scorso le importazioni americane di beni e servizi dalla Cina hanno raggiunto un livello record.

Che c’è il de-risking

Si è cominciato a cercare una strategia alternativa, più chirurgica e prudente, anche perché il disaccoppiamento veniva percepito dalla Cina come un tentativo smaccato di repressione ai suoi danni, che la rendeva ancora più ostile e paranoica. E così dai recessi del dizionario geopolitico è spuntato un nuovo termine: de-risking. L’invenzione è europea. Ne ha parlato per prima la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, poi il concetto è stato ripreso da Biden e incorporato nelle dichiarazioni finali dell’ultimo G7. Questo il principio, chiaro a parole, meno nei fatti: le aziende e le nazioni occidentali possono ancora commerciare con la Cina, a patto che siano rispettati certi paletti e salvaguardie. Per capire di che cosa si tratta, va bene anche l’esempio della dipendenza dalla Russia.

Prima della guerra in Ucraina, molti paesi europei, in particolare Germania e Italia, importavano gran parte del gas dalla Russia, creando una preoccupante vulnerabilità economica. Consapevoli di questo rischio, avrebbero potuto imporsi di smettere completamente di rifornirsi di gas russo, nonostante i costi. Questo approccio avrebbe coinciso con la strategia chiamata de-coupling. Ma l’Europa avrebbe potuto scegliere anche una strada meno radicale. Se avesse investito subito di più in nuovi terminali e serbatoi di stoccaggio, avrebbe potuto importare gas da un ventaglio di paesi, riducendo il rischio. Questo si chiama, appunto, de-risking. In sostanza, si tratta di diversificare i fornitori, ridurre la vulnerabilità economica, facendo meno danni possibile al commercio e agli investimenti.

I rischi della dipendenza dalla Cina

Nel caso della Cina, spiegano gli analisti, i rischi rientrano in due grandi categorie. Nella prima ci sono i prodotti e le materie prime che l’Occidente importa dalla Cina, nella seconda le cose che la Cina importa dall’Occidente. In cima alla lista delle preoccupazioni i governi mettono la tecnologia occidentale più avanzata che potrebbe finire nell’arsenale di Pechino. Per questo gli Stati Uniti hanno bloccato l’export di microchip sofisticati, chiedendo a Giappone e Corea del Sud di partecipare all’embargo – e i due alleati hanno accettato, sebbene con una certa riluttanza. De-risking, secondo l’amministrazione Biden, vuol dire quindi lasciare aperti gli scambi commerciali, a eccezione di un “cortile altamente recintato”. Il problema è che non è chiaro quali siano esattamente i confini del cortile, oltre al fatto che Europa e Stati Uniti potrebbero avere necessità diverse riguardo a questi limiti.

L’altro problema è che oggi le linee di demarcazione tra uso civile e militare sono molto sfumate, e ciò potrebbe costringere ad allargare l’area delle recinzioni. Biden potrebbe includere divieti nel campo dell’intelligenza artificiale, informatica quantistica, energia pulita, biotecnologia. L’obiettivo è rallentare l’innovazione cinese in modo che gli Stati Uniti conservino il più a lungo possibile la loro supremazia tecnologica. Del resto, come biasimarli: molti considerano Xi Jinping una specie di nuovo Mao. Ha fatto imboccare al suo paese una strada più ideologica e autoritaria. Ha distrutto, tradendo le promesse, la democrazia di Hong Kong e vuole fare lo stesso a Taiwan. Il suo omologo russo, l’amico ‘senza limiti’ Vladimir Putin, sta conducendo una guerra criminale in Europa. Perché dovremmo fidarci? Perché i prodotti e le invenzioni occidentali, soprattutto americane, dovrebbero fluire liberamente in Cina, rendendo quel regime più pericoloso?

La situazione europea

Va detto, però, che l’Europa, rispetto agli Usa, è più esposta negli scambi con Pechino, e subirebbe danni ben più gravi da una maggiore chiusura dei commerci. Secondo una stima dell’Economist, le sei grandi economie europee esportano in Cina, in proporzione al loro Pil, una media superiore a quella degli Stati Uniti, calcolando vendite di beni, servizi e fatturato sul territorio cinese delle filiali di proprietà occidentale. Il paese con più esposizione è la Germania, poi Francia e Gran Bretagna, ultime Italia e Spagna. L’altra economia molto dipendente è quella olandese. Un allarme arriva proprio dal ministro del Commercio olandese, che, parlando di de-risking, ha sottolineato come la transizione ecologica dell’Europa sia impossibile senza la Cina. Dopo il gas russo, ecco quindi un altro fornitore ad alto rischio. La Cina domina alcune tecnologie verdi, come pannelli solari e batterie elettriche per le auto, la cui domanda sta crescendo molto per far fronte agli obiettivi del green deal europeo.

La dipendenza riguarda anche i materiali critici che entrano in questi apparecchi e tecnologie. Nel 2022 la Cina ha estratto quasi tre quinti degli elementi di terre rare usati come componenti nei dispositivi elettronici. Ha raffinato il 60% del litio mondiale e l’80% del cobalto, due minerali fondamentali per la produzione di batterie elettriche ad alta capacità. L’Europa inoltre importa il 98% delle sue terre rare dalla Cina (gli Usa l’80%), che sono minerali determinanti nel passaggio all’economia pulita. L’Europa dipende dalla Cina anche per il 93% del magnesio e il 97% del litio. A questo punto immaginiamoci cosa accadrebbe se scoppiasse un litigio.

La minaccia cinese

Un esempio è la disputa territoriale che la Cina ha avuto con il Giappone nel 2010: in quel caso decise di tagliare immediatamente le esportazioni di alcuni materiali critici per l’industria nipponica. Pechino potrebbe fare lo stesso con l’Europa, negando alla nostra industria alcuni input strategici. In più la Cina è anche un mercato vitale per molte aziende europee. In caso di controversia, queste potrebbero subire il tipo di boicottaggi, ispezioni arbitrarie e ritardi patiti da alcuni prodotti australiani, tra cui vino e carne bovina, quando i due paesi litigarono alla fine del 2017. Inoltre c’è il timore – condiviso dagli Stati Uniti – che la tecnologia occidentale, in questo caso europea, possa aiutare la Cina a modernizzare le forze armate e a migliorare l’intelligence.

A questo punto entriamo nel vivo della strategia del de-risking: come si fa fronte a queste pericolose incognite? Il primo passo è identificarle con maggiore precisione attraverso stress test nella catena di approvvigionamento. Sulle materie prime la Commissione europea intende fare due cose: da una parte aumentare la produzione interna, dall’altra diversificare i fornitori. Con un provvedimento di marzo 2023 è stato redatto un elenco di materie prime critiche per l’economia europea ed è stato stabilito che entro il 2030 non più del 65% del consumo annuale di qualsiasi materia elencata possa provenire da un singolo paese. La legge, tra l’altro, mira ad aumentare l’estrazione di litio e grafite all’interno dell’Ue. Come partner commerciali alternativi, la Commissione vuole incrementare gli scambi con Australia, India e l’Associazione dei paesi del Sud est asiatico. Si vorrebbero controllare di più anche gli investimenti provenienti dalla Cina, soprattutto nei settori strategici della tecnologia di frontiera. Lo stanno già facendo economie importanti come quella tedesca, francese, italiana.

La questione 5G

Secondo il Financial Times, che ha intervistato funzionari a conoscenza delle trattative, l’Ue sta valutando la possibilità di vietare agli stati membri l’utilizzo nelle loro reti 5G di società considerate a rischio per la sicurezza, tra cui il gruppo cinese di telecomunicazioni Huawei. L’idea di questa specie di embargo nasce dal fatto che, per ora, soltanto un terzo dei paesi europei ha escluso Huawei dalle proprie infrastrutture 5G, nonostante le raccomandazioni di Bruxelles. “I paesi (che hanno bloccato Huawei) sono troppo pochi, e questo mette a rischio la sicurezza collettiva del nostro continente”, ha detto Thierry Breton, commissario per il Mercato interno dell’Ue.

Bruxelles, insomma, vorrebbe una supervisione più coerente e coordinata. Ma già oggi gli investimenti sono molto meno liberi che in passato. È difficile immaginare un accordo come quello del 2016, quando Kuka, una società tedesca di robotica, è stata comprata da un’azienda cinese. L’acquisto di Kuka, uno dei maggiori produttori di robot industriali al mondo, rientrava nella strategia di crescita cinese, cioè la transizione da manifattura a basso costo a polo industriale ad alta tecnologia. Oggi un trasferimento di know-how del genere verrebbe probabilmente fermato.

I pilastri della strategia europea

L’Unione europea ha anche deciso, lo scorso marzo, un nuovo protocollo nel caso dovesse subire attacchi di ‘coercizione economica’, come quello patito dalla Lituania quando ha deciso di aprire sul suo suolo una rappresentanza diplomatica di Taiwan e la Cina si è vendicata bloccando alcune importazioni. La risposta europea a queste prepotenze consisterebbe nell’alzare tariffe e altre rappresaglie simili. Ovviamente, dal punto di vista cinese, l’embargo americano sui microchip è un abuso altrettanto grave. Infine, a Bruxelles c’è l’ipotesi di applicare controlli sulle esportazioni e un maggiore screening degli investimenti diretti all’estero. L’obiettivo è chiaro: limitare i rischi nei confronti della Cina tracciando i confini di quel “cortile altamente recintato” di cui ha parlato Biden. Tre pilastri: ridurre la dipendenza su materie prime e alcuni prodotti tecnologici, limitare le esportazioni di tecnologia di frontiera (che altrimenti farebbero avanzare le capacità militari di Pechino), ma allo stesso tempo continuare a spingere le aziende occidentali a commerciare con il vasto mercato cinese. Detta così, sembra una strategia abbastanza coerente.

Il problema è che i cinesi tendono a considerare il de-risking un mero artificio retorico. Gli Usa vogliono allentare la tensione, cercano un terreno comune, anche sulla guerra in Ucraina. A parole adottano il de-risking, ma nei fatti perseverano nel loro embargo tecnologico e addirittura vagliano la possibilità di nuove restrizioni. L’altro problema è che il de-risking non ci prepara a una rottura grave del rapporto con Pechino. Sanzioni simili a quelle adottate contro la Russia, ad esempio nel caso in cui la Cina invadesse Taiwan, colpirebbero anche l’America, ma danneggerebbero di più l’Europa, destabilizzando molte aziende.

Per Volkswagen abbandonare il mercato cinese, dove realizza almeno metà dei profitti, sarebbe come lanciarsi da una finestra di un grattacielo. L’equivalente di un suicidio aziendale. Ma anche Apple avrebbe problemi enormi, visto che quasi tutti i suoi apparecchi sono prodotti nel sud della Cina. La domanda successiva però è: la Cina può davvero permettersi uno scenario del genere? Anche lei dipende molto dagli scambi con Europa e Stati Uniti. In più la sua economia sta perdendo slancio, rivelando difficoltà piuttosto profonde. L’era della crescita rapida sembra finita. Oggi Pechino deve affrontare debolezze strutturali che si sono accumulate negli anni. Non ha aiutato la repressione del partito ai danni delle imprese private, che Xi Jinping però sembra voler correggere per non scoraggiare gli investimenti. Il leader cinese, forse, potrebbe resistere all’ideologia e far prevalere il buon senso, a Taiwan come in Ucraina.

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