Luciano Floridi
Business

Dalla stagione politica dell’individualismo a quella della comunità. La transizione auspicata da Luciano Floridi

Articolo apparso sul numero di dicembre 2023 di Forbes Italia. Abbonati!

L’Italia, l’Europa, il sociale e l’economia visti dagli Stati Uniti, dove sta progettando e realizzando il più importante laboratorio al mondo sull’etica dell’intelligenza artificiale. Indossato l’elmetto da esploratore, è partito per la grande avventura globale, forte dei collegamenti a Oxford e a Bologna. Un viaggio nella transizione digitale, nei modi e nei tempi del cambiamento profondo, ma anche nella necessità di una transizione politica: ecco la Democrazia 2, il ritorno alla gestione comunitaria globale. Si parte dalla leadership nella gestione e dal controllo dell’intelligenza artificiale. Parola di Luciano Floridi, direttore del Digital Ethics Center alla Yale University.

Perché gli Stati Uniti sono leader nella transizione digitale globale?

È un paese enorme che fa sistema. Se l’Europa fosse unificata da una lunga storia di tradizioni legislative e tutti parlassero la stessa lingua, sarebbe un’altra grandissima realtà, e invece basta guardare alla Brexit per capire come stanno le cose. Negli Usa, invece, è così. Soprattutto, qui c’è la voglia di fare quello che serve e di farlo subito. C’è la capacità di vedere i problemi e mettere le risorse a sistema per risolverli. Certo, quando si va troppo veloci si fanno molti errori. Bisognerebbe trovare un punto di bilanciamento a metà dell’Atlantico tra la vecchia Europa e la nuova America.

Quella dell’etica dell’intelligenza artificiale è la partita più importante dei prossimi anni?

Sicuramente. Questa rivoluzione nell’applicazione delle tecnologie è una grande opportunità per risolvere problemi sociali e ambientali. Può fare la differenza creando più ricchezza e meglio distribuita, facendo bene all’ambiente, alla società e al business. Ci vorrà un grande impegno: nessuno si deve illudere di poter dimagrire senza sforzo. Il problema è che non stiamo facendo quello che potremmo e dovremmo fare. La rivoluzione digitale ancora oggi è parte del problema, non della soluzione. La politica dovrebbe occuparsene e fare di questo tema una priorità, invece stiamo perdendo un’opportunità straordinaria.

Proviamo a definire gli ambiti di azione del digital center: quali sono le scelte di partenza? 

Non serve fare quello che altri stanno già facendo molto bene, soprattutto negli Stati Uniti: bisogna essere complementari ad altri centri. Noi saremo come l’esploratore che studia la natura del territorio prima che arrivi il resto della popolazione. Certo, si possono prendere abbagli: Cristoforo Colombo pensava di essere arrivato in India. Sappiamo che alcune ricerche che faremo potrebbero non cogliere nel segno, mentre finiranno per essere un po’ datate. Però mi auguro che tra errori, difficoltà e scivoloni, con tanto lavoro e un po’ di fortuna, si possano ottenere risultati. È importante triangolare con gli altri, non solo americani. Stiamo creando ponti con Oxford e con l’Università di Bologna.

Che tipo di squadra sta formando?

Quello che sto cercando di fare è non delineare profili per poi cercare persone che vi si adattino, ma cercare persone valide. E se le troviamo tutte in un certo settore, ad esempio quello dell’etica nell’applicazione medica del digitale, pazienza: vorrà dire che per quell’anno avremo più lavoro in quell’area piuttosto che in un’altra. È importante non pensare in termini piramidali: se si fa un’operazione di esplorazione, bisogna avere chiaro chi è l’esploratore, se è in grado di navigare aree sconosciute, rompendo gli schemi con curiosità e voglia di rischiare, invece di allinearsi a quello che è già stato fatto. Se non si fa questo, non c’è innovazione. Il coraggio di pensare con la propria testa è qualcosa che l’università dovrebbe esibire come bandiera, invece si privilegia sempre chi sa fare i compiti, chi sta in linea, chi è bravissimo nel fare il già fatto.

Com’è l’Italia vista da Yale? Possiamo avere un ruolo nella transizione digitale?

È un’Italia un po’ romanzata, idealizzata: le colline sono sempre verdi, il mare è sempre blu, tutte le cose sono sempre belle e buone,  la gente è simpatica. Insomma, un’Italia che ci piacerebbe tanto, ma che non esiste. È una visione parziale, dolce, ottimista e positiva, ma è anche una visione di un paese che non conta nulla: quando l’America guarda politicamente ed economicamente all’Europa, si rivolge anzitutto alla Germania e poi alla Francia. Non so se si ricorda dell’Italia, che pure è importantissima anche a livello economico. Forse sarebbe il caso di cambiare le nostre politiche: se qualcuno riceve un messaggio diverso da quello che vogliamo dare, bisogna cambiare il messaggio. Tanti governi hanno vissuto una sorta di complesso di inferiorità, eppure abbiamo un peso economico superiore a quello della Russia o del Brasile. Perciò dobbiamo giocare questa partita per capire quale ruolo vogliamo avere nel mondo.

La politica sembra essere più una sovrastruttura burocratica che tampona, non gestisce e non controlla.

È come se la democrazia avesse avuto la stagione dell’individualismo e non riuscisse ad avere quella della comunità: gli intellettuali del mondo, invece di continuare a flagellarsi sul fatto che tutto questo non funziona, dovrebbero cominciare a capire come farlo funzionare. La benzina è finita e bisogna rimetterla nel serbatoio della comunità, cioè bisogna lavorare non soltanto per l’individuo, ma anche per la società. Se non ci lavoriamo tutti insieme, non riusciremo a risolvere i problemi globali.  

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