Articolo tratto dal numero di febbraio 2025 di Forbes Italia. Abbonati!
Luca Ferrari ha fondato la sua prima startup a Copenaghen nel 2010, quando aveva 25 anni. L’azienda si chiamava Evertale, il prodotto era un diario che si scriveva da solo: l’intelligenza artificiale raccoglieva i dati dal telefono e raccontava la giornata del proprietario. Per mantenere se stesso e gli altri due fondatori – Francesco Patarnello e Matteo Danieli, ingegneri come lui – accettò un lavoro in McKinsey. Si licenziò all’inizio del 2012, quando Evertale riuscì a raccogliere 1 milione di euro da un fondo di venture capital.
L’anno dopo i tre capirono che il prodotto non avrebbe funzionato. Del finanziamento erano rimasti 40mila euro. Li usarono subito per fondare un’altra azienda. Andò molto meglio: la loro seconda creazione si chiama Bending Spoons ed è uno dei più grandi sviluppatori di app al mondo. Il nome – ‘piegare cucchiai’ – viene dalla scena di Matrix in cui un bambino in abito da monaco piega un cucchiaio con il pensiero. Rende cioè flessibile ciò che è rigido, fa qualcosa che sembra impossibile grazie alla mente, all’impegno e alla disciplina. Con Ferrari, Patarnello e Danieli ci sono anche Luca Querella e Tomasz Greber.
“Acquistiamo un’azienda tecnologica digitale, immaginiamo come dovrebbe essere per avere il massimo successo possibile nel lungo termine e lavoriamo per rendere questa visione una realtà. Lo facciamo anche quando per arrivare al risultato servono cambiamenti radicali”, dice Ferrari, che è l’amministratore delegato. “I prodotti che sviluppiamo e gestiamo sono eterogenei, ma gli strumenti che impieghiamo e i principi che seguiamo sono più o meno gli stessi. Abbiamo costruito un motore che ci aiuta a far andare più veloci automobili anche molto diverse tra loro”.
Nata ancora a Copenaghen, Bending Spoons si è trasferita poco dopo a Milano, dove da un anno ha un quartier generale in stile nordico: open space, sale silenziose, inserti vegetali alle pareti, tanto legno, stanze per dormire, un piano dedicato allo svago con sala giochi e un pianoforte a coda. All’inizio del 2024, quando ha chiuso un aumento di capitale da 155 milioni di dollari, la valutazione dell’azienda era di 2,55 miliardi. Ora, dopo le tante acquisizioni dello scorso anno, “è significativamente più alta”, dice Ferrari.
Bending Spoons ha chiuso il 2024 con un fatturato di 706 milioni di dollari e per il 2025 Ferrari prevede di andare “ben al di sopra del miliardo”. App e servizi hanno 300 milioni di utenti attivi mensili, i principali investitori sono Baillie Gifford, Cox Enterprises, Durable Capital, Highland Europe, Neuberger Berman, Nb Renaissance, Nuo Capital e Tamburi Investment Partners. “Da quando avevo cinque o sei anni ho desiderato costruire qualcosa di grande, durevole ed eccezionale, anche se solo all’università ho capito che fare l’imprenditore era la mia strada”, dice ancora Ferrari, che è figlio di una coppia di parrucchieri di Settimo di Pescantina, in Valpolicella, a pochi chilometri da Verona. Sul sito di Bending Spoons si legge: “Abbiamo solo superato la linea di partenza sulla strada per costruire una delle più grandi aziende di tutti i tempi”.
Ferrari, che cosa è andato storto con la prima startup e che cosa è cambiato al secondo tentativo?
La fortuna è una componente importante per creare un’azienda di successo. Con Evertale non siamo stati molto fortunati, con Bending Spoons lo siamo stati di più. Inoltre la strategia che abbiamo progettato per Bending Spoons si è rivelata molto più efficace.
E qual è la strategia?
Di solito una startup dice: ‘Proviamo a lanciare questo prodotto e vediamo come va’. Per Evertale è stato così. In Bending Spoons, invece, diversifichiamo i prodotti su cui lavoriamo e sappiamo già che i prodotti funzionano. L’impatto della fortuna è ridotto: i risultati dipendono da quanto siamo bravi a gestire i prodotti, quindi più dall’impegno e dal talento che dal caso.
Arriveranno altre acquisizioni nei prossimi mesi?
Quasi certamente. È il nostro modello di business. Penso che nei prossimi anni acquisiremo molte altre aziende, tendenzialmente sempre più grandi.
C’è l’idea di una quotazione in Borsa?
Nulla di concreto, al momento.
Molti conoscono Bending Spoons come l’azienda che ha sviluppato Immuni, l’app per monitorare e contenere il Covid. Quell’iniziativa non ebbe successo. Se ne è pentito?
Immuni non è certo il nostro unico fallimento. Siamo orgogliosi della qualità del prodotto e di aver fatto ciò che abbiamo fatto, completamente gratis, nonostante la mole di lavoro enorme. Immuni non ha avuto l’impatto che speravamo, ma provarci è stata la scelta giusta, responsabile, visto il momento di emergenza in cui era l’Italia.
Qualche altro progetto in cui ha creduto molto che non ha funzionato?
Mi viene in mente Playond, nome che univa ‘play’, giocare, e ‘beyond’, oltre. Doveva essere il Netflix dei giochi mobile: si pagava un abbonamento mensile e si poteva giocare a tantissimi giochi di qualità. Eravamo molto convinti, invece non ha funzionato. Era molto simile a Apple Arcade, che Apple ha lanciato poco dopo e che a sua volta non penso abbia avuto grande successo. Il problema è stato che la maggior parte degli utenti voleva giocare tantissimo a un solo gioco. Non avevamo considerato la differenza fondamentale con Netflix: una persona non guarda Pulp Fiction ogni giorno, ma può giocare tutte le sere allo stesso videogioco.
Qualcosa che vi è riuscito particolarmente bene, invece?
Una cosa in cui siamo molto bravi è identificare persone inesperte – anche laureandi o neolaureati – che hanno tantissimo talento, e poi far sbocciare molto in fretta quel talento. In generale, comunque, nessun elemento è decisivo da solo. È come la Formula 1: per vincere il Mondiale bisogna essere i migliori o tra i migliori in tutto, dal motore all’aerodinamica.
Quanto riesce a prevedere che cosa funzionerà e che cosa no?
Dipende dal tipo di decisione. Negli ultimi anni non abbiamo mai sbagliato un’acquisizione. Quando si tratta di indovinare quali prodotti le persone apprezzeranno, è molto più difficile. Sbagliamo l’80% delle volte. Per compensare il tasso di errore molto alto sviluppiamo una versione abbozzata dell’idea, la mettiamo in mano agli utenti e vediamo come reagiscono. Se la reazione è entusiastica, investiamo di più per realizzare la versione migliore possibile. Altrimenti passiamo ad altro.
Quanto conta in un’azienda la cultura dell’errore?
È importante per due motivi. Il primo è ovvio: riconoscerli e analizzarli serve a imparare. La seconda è che occultare l’errore è pericolosissimo: non riconoscerlo può indurre altri a prendere decisioni disastrose. Malcolm Gladwell in Outliers racconta che negli anni ’80 e ’90 l’aviazione coreana aveva un tasso di incidenti altissimo. La causa era che, per ragioni culturali, i sottoposti non facevano notare gli errori ai superiori.
Secondo quali principi ha costruito la cultura aziendale di Bending Spoons?
Spirito di squadra, ambizione di essere i più bravi al mondo in ciò che facciamo e attenzione a prendere le decisioni migliori, con creatività, logica e razionalità. Un altro aspetto è che tutti devono fare: nessuno, inclusi i dirigenti, è un mero passacarte. Io stesso cerco di riservare il 50% del mio tempo al lavoro individuale. Poi c’è la selezione: prima di presentare un’offerta di lavoro, provo a dissuadere la persona dall’unirsi a noi. Al momento della proposta inviamo un documento che si chiama ‘Controversial principles’, principi controversi, ed elenca gli aspetti del lavoro in Bending Spoons che potrebbero non piacere. Così entra solo chi è innamorato del progetto.
Che cosa dice ai candidati per dissuaderli?
Una cosa che sottolineo è il principio che chiamiamo ‘uncompromising excellence’: nessun compromesso sull’eccellenza. Vogliamo che ogni posizione sia occupata dalla persona che, nel medio-lungo periodo, può fare meglio in quel ruolo. Poi non c’è niente di garantito, bisogna guadagnarsi costantemente il posto. Deve essere come giocare nel Real Madrid: chi firma con il Real non ha un posto da titolare assicurato per dieci anni. Vale anche per me: una volta all’anno sottoponiamo un questionario anonimo ai principali investitori, ai membri del consiglio di amministrazione e ai principali manager. Ci sono solo due domande: ‘Dovremmo cercare un altro ad?’ e ‘Perché?’. Se il numero di ‘sì’ superasse una certa soglia, il cda si attiverebbe. La nostra politica dà tanto a livello di crescita, responsabilità e retribuzione, ma non è adatta a tutti.
E perché tanti firmano, allora?
L’attrattiva numero uno è che, proprio grazie a una selezione severa, i colleghi con cui ci si trova a lavorare sono di livello eccezionale. Nel 2024 si sono candidate a lavorare da noi più di 350mila persone e abbiamo fatto una proposta a 150: una ogni 2.300 circa. Siamo molto più selettivi di tutte le aziende più conosciute. Un altro elemento è che diamo grande libertà: si può lavorare quando si vuole, dove si vuole e, in linea di massima, come si vuole. E si può arrivare molto in fretta a ruoli di grande responsabilità: la persona che guida la parte di ingegneria e tecnologia – un’organizzazione di 250 persone – ha meno di 30 anni.
Negli ultimi anni è aumentata l’attenzione all’equilibrio tra vita privata e professionale. Con il vostro modello non si rischia l’eccesso di stress?
Ci sono fattori positivi, come la libertà, e negativi, come l’enfasi sul risultato. Se il saldo è positivo o negativo dipende dall’individuo. In ogni caso abbiamo meno dell’1% di partenze indesiderate all’anno, cioè di persone che vorremmo trattenere e che invece lasciano l’azienda. Nell’industria tecnologica la norma è l’8-10%, in alcuni casi si arriva al 20%. In base alla mia esperienza so che lo stress non dipende solo dalle aspettative, ma può essere causato anche dal poco controllo su ciò che si fa, per esempio, o da una convivenza difficile con i colleghi. Questi elementi sono pressoché inesistenti da noi.
Quando acquisite aziende, spesso una delle vostre prime mosse è un licenziamento di massa. Nel caso recente di WeTransfer, per esempio, avete tagliato il 75% dei dipendenti. Perché?
Abbiamo concluso che quel prodotto fosse troppo semplice e le prospettive di sviluppo troppo limitate per giustificare una squadra così grande. Inoltre nel nostro settore, fatto di creatività e sviluppo ingegneristico, spesso squadre piccole, con meno burocrazia, meno strati manageriali e più libertà d’azione, fanno molto più di squadre grandi. Il lavoro è meno farraginoso, ci sono meno ostacoli all’imprenditorialità e all’iniziativa dei singoli.
Che cosa succede quando si acquista un’azienda e si prende subito una decisione così impopolare?
Sono scelte che non fanno piacere, ma il nostro lavoro è identificare e comprare aziende che potrebbero essere gestite meglio. Se le abbiamo acquisite, spesso è perché vediamo l’occasione di aumentare la produttività. Per mitigare il problema cerchiamo di essere trasparenti da subito, da quando cominciamo a valutare i possibili tagli. Diamo molto tempo per cercare un nuovo lavoro e pacchetti di buonuscita molto più generosi rispetto alla media del mercato. Nel caso di WeTransfer abbiamo offerto un minimo di sei mesi di stipendio, più 1,25 mesi per ogni anno di anzianità in azienda dopo il terzo. Abbiamo anche pagato l’intero bonus per l’anno in corso e garantito a ciascuno un budget di 7.500 euro per corsi di formazione o per lanciare un progetto imprenditoriale. È una proposta fuori scala rispetto ai mercati del Nord Europa e dell’America.
Non si preoccupa dell’impatto sociale dei licenziamenti?
Se potessimo ottenere lo stesso risultato in un altro modo, saremmo più felici. Pensiamo però che nel lungo periodo sia meglio per tutti avere aziende altamente produttive. Una cultura dell’efficienza, anche se di tanto in tanto impone decisioni dolorose, nel lungo termine tende a portare produttività, competitività e prosperità. E un’economia più prospera tende a tradursi in più posti di lavoro, meglio retribuiti. La cultura del posto fisso e le norme che la supportano sono deleterie a lungo andare, perché favoriscono l’esatto opposto di produttività, competitività e prosperità. In Italia ci sono la cultura del posto fisso e norme inflessibili e, infatti, relativamente pochi posti di lavoro, pagati male.
Secondo lei nel sistema imprenditoriale italiano c’è un potenziale inespresso come nelle aziende che acquisite?
Senza dubbio.
Come lo si può tirare fuori?
Bisogna ridurre drasticamente il numero e la pesantezza delle norme e abbattere le barriere rispetto agli altri mercati, per esempio unificando il più possibile il mercato europeo. È importante anche stimolare una cultura dell’apertura mentale, della razionalità e dell’ambizione, a scapito di quella, troppo diffusa in Italia, della tradizione, del sentire di pancia e dell’accontentarsi.
Anche nel campo dell’intelligenza artificiale sarebbe per lasciare mano libera alle aziende?
In questa fase sì, salvo per applicazioni ad altissimo rischio, come quelle militari, che normerei da subito. Più avanti ci sarà bisogno di normare l’IA in modo più ampio, ma a mio avviso è ancora presto.
Perché ha deciso di lasciare l’Italia per completare gli studi e fondare la prima impresa e perché ha deciso di tornare?
Volevo imparare bene l’inglese e fare una nuova esperienza. Ho vinto una borsa di studio per una seconda laurea specialistica in un politecnico europeo. Ho scelto quello di Copenaghen perché l’intero programma era in inglese. Anni dopo abbiamo deciso di riportare Bending Spoons in Italia per dimostrare che si può costruire un’azienda tecnologica dominante a livello mondiale anche in un paese che, come il nostro, non ha quasi mai visto successi simili negli ultimi decenni.
Che cosa le è rimasto della provincia dove è nato?
Dall’ambiente in cui sono cresciuto, e dai miei genitori in particolare, ho imparato l’importanza di essere onesti e affidabili, di rimanere sempre con i piedi per terra e di lavorare molto duramente per guadagnarsi ciò che si desidera, invece di ritenerlo dovuto.
C’è un imprenditore a cui si ispira?
Non ho un modello a cui mi ispiro in toto. Mi piace vedere il bello in ciascuno e cercare di emulare selettivamente e separatamente. Di certo Jeff Bezos, Elon Musk e Warren Buffett sono tra gli imprenditori e investitori che più mi hanno colpito.
Ha citato Musk: che effetto le ha fatto il suo ingresso in politica?
L’ho trovato sorprendente e interessante, ma non ha modificato molto la mia ammirazione per ciò che ha fatto come imprenditore.
Quante ore lavora in una settimana?
Circa 70, spalmate su sette giorni. Non distinguo i giorni feriali dal fine settimana. Al massimo lavoro un paio d’ore in meno nel weekend.
Che cosa fa al di fuori del lavoro?
La mattina mi alzo alle 7, sto un po’ con i miei due cani, mi alleno e leggo prima di andare al lavoro. Quando finisco, verso le 20.30-21, passo un po’ di tempo con mia moglie. Poi lavoro ancora dal telefono, controllo se c’è qualcosa di urgente. Mi corico e leggo ancora prima di dormire. Cerco di leggere un’ora o un’ora e mezza al giorno.
Qualche libro letto di recente che l’ha colpita?
L’autobiografia di Malcolm X e River Town: Two Years on the Yangtze di Peter Hessler. Anche questo è un libro autobiografico, in cui Hessler racconta la sua esperienza in Cina come insegnante volontario di Peace Corps.
Per altri contenuti iscriviti alla newsletter di Forbes.it CLICCANDO QUI .
Forbes.it è anche su WhatsApp: puoi iscriverti al canale CLICCANDO QUI .