Elias Khalil Eli Lilly
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Perché l’Italia è cruciale nei piani di Lilly, la più grande casa farmaceutica al mondo

Articolo tratto dal numero di marzo 2025 di Forbes Italia. Abbonati!

Dalla grande terrazza accanto al suo ufficio di Sesto Fiorentino guarda verso un mercato di 180 milioni di persone. Elias Khalil, libanese di nascita, ma assolutamente internazionale per esperienze e cultura, è il presidente e amministratore delegato di Italy Hub, il cluster di Lilly che comprende, oltre all’Italia, 18 paesi dell’Europa Centro-Orientale e Israele. Eli Lilly and Company è un’azienda farmaceutica globale che ha la sede principale a Indianapolis. Porta il nome del suo fondatore, un colonnello delle giacche blu nordiste che, alla fine della Guerra di secessione americana, in seguito alla morte della moglie, decise di produrre farmaci, più di un secolo e mezzo fa, quando la medicina era molto approssimativa: si vendevano unguenti e intrugli, per dare speranza ai malcapitati. Lilly invece scelse di affidarsi alla chimica. Ed ebbe ragione. Oggi i prodotti dell’azienda che ha fondato sono venduti in circa 125 paesi nel mondo. 

Elias è un manager moderno e coinvolgente. Ama l’impegno e il talento, gli piace lavorare in squadra, prendersi le responsabilità e condividere i meriti. Ha le stimmate del leader paziente e autorevole, competente e visionario. Parla un ottimo italiano (insieme all’inglese, al francese e all’arabo) perché ama immergersi nei paesi dove lavora. E l’Italia ha un posto speciale nel suo cuore e anche nella sua carriera: “Mi sono sposato qui, ho una casa in Abruzzo e ho chiesto io il trasferimento in Italia, dopo più di 15 anni in Lilly”, racconta. Nato in Libano da una famiglia del ceto medio, cresciuto in mezzo alla guerra civile, è riuscito a studiare tra mille difficoltà, ma dopo la laurea ha fatto la valigia ed è volato in America. Al campus, appena conseguito l’Mba con ottimi voti, è stato notato da Lilly. Era il 2008. E la sua carriera ha preso il volo. Forbes lo ha intervistato.

Quali sono stati i fattori che hanno influenzato di più il suo percorso per diventare un leader? Quali esperienze le hanno lasciato il segno? 
Sono cresciuto in Libano durante la guerra civile. Era difficile parlare di aspettative allora. Le aspettative erano di sopravvivere, poter andare a scuola. La mia famiglia apparteneva alla classe media e decise di investire su di me e sulla mia formazione. Ho iniziato a lavorare per Lilly partendo con un ruolo in Arabia Saudita, 17 anni fa, e da lì ho ricoperto in azienda diversi ruoli in marketing, vendite e funzioni non commerciali in vari paesi nel mondo. Sono stato fortunato perché ho potuto lavorare con leader che sono stati per me fonte di grande ispirazione. Sono tornato in Arabia Saudita nel 2016 come general manager. Ho rischiato perché era un incarico molto difficile ed è andata bene. Sinceramente non avrei mai immaginato di arrivare dove sono oggi e di diventare l’amministratore delegato per l’Italia. Al massimo di venirci a lavorare, perché è un Paese che ho sempre amato. 

E oggi, dopo 17 anni?
Adesso guardo la persona che è entrata in Lilly 17 anni fa ed è sempre la stessa, ma con più conoscenza e consapevolezza. Quello che ho imparato qui non immaginavo di poterlo imparare. La Lilly mi ha dato gli strumenti e un metodo di lavoro, e la possibilità di farlo insieme a tanti talenti pronti ad accettare nuove sfide. Sono felice di quello che ho fatto, ora voglio vedere se posso superare ancora i miei limiti. 

Quali sono i compiti di un leader?
Prima di tutto saper gestire le persone. Poi trasmettere dei valori, perché altrimenti si diventa solo un bravo ‘generale’ che lavora. L’azienda non ti insegna i valori, quelli si insegnano a casa, in famiglia, ma quando trovi un ambito in cui i valori sono gli stessi, ed è quello che ho trovato qui, allora capisci di essere nel posto giusto. Ho avuto diverse offerte da altre aziende anche quando le cose in Lilly non andavano bene, ma ho sempre detto di no perché mi piace questo ambiente, perché siamo un’azienda dove tutti collaborano, dove si lavora in squadra non tanto per competere con altre aziende, ma per combattere contro le malattie.

La qualità più importante per un leader?
Avere cura delle persone che lavorano con te, dare consigli che possano rendere i collaboratori più consapevoli e spingerli ad andare ancora più avanti. C’è un’altra cosa molto importante: oggi qui abbiamo 1.500 dipendenti, non voglio parlare in prima persona, voglio parlare di ‘noi’. Il mio obiettivo è quello di formare una squadra di persone che abbiano competenze che io non ho. Il capitale umano è la cosa più preziosa, perché le strategie si copiano, ma le persone che fanno la strategia, o ci sono o non ci sono. Avere queste persone in squadra  è l’ingrediente su cui dobbiamo focalizzarci.

Arabo, americano, europeo. Italiano. Quali skill deve avere un manager per essere veramente globale?
Prima di tutto la curiosità di conoscere nuove culture. Io, quando arrivo in un paese, cerco sempre di imparare la lingua, ma anche di conoscere  la cultura e rispettarla, così come le usanze e le tradizioni. La seconda cosa è considerarsi un cittadino di quel paese. Per esempio io rappresento un’azienda americana, ma Lilly pensa e agisce negli interessi dell’Italia. Altrimenti non possiamo essere accolti qui con favore. Abbiamo rapporti ottimi con le città, le regioni, gli stakeholder e chi collabora con noi.

Quale consiglio darebbe a un manager agli inizi della carriera?
Il primo consiglio che ho ricevuto da un importante dirigente è stato: one job at a time, un lavoro alla volta, perché se pensiamo come salire al livello successivo, perdiamo il focus. Secondo me non possiamo essere scissi dal ruolo che ricopriamo in un certo momento. Anche perché chi ti valuta lo fa su quello che stai facendo, non su quello che farai. E poi un manager deve saper rischiare e soprattutto pensare ai benefici per l’azienda prima che a quelli per sé stesso.

Quale è stato il rischio più grande che ha preso?
Quello di andare in Arabia Saudita come general manager. All’epoca era molto difficile attrarre talenti in quel paese. Io ho valutato il rischio e ho accettato. Era il mio primo incarico da general manager. Non è stato facile, mia moglie ha dovuto lasciare il suo lavoro per seguirmi e non si è trovata nemmeno molto bene. Ma è stata coraggiosa anche lei. Mi sono detto: se fallisco rischio di frenare la mia carriera o addirittura di uscire dall’azienda, ma se va bene per me sarà una grande opportunità. È andata bene anche perché ho potuto creare la mia squadra e applicare i miei principi. Abbiamo assunto la gente giusta, abbiamo lavorato sulla cultura del lavoro, abbiamo fatto tante partnership con il governo dell’Arabia Saudita e ho accettato tutto l’aiuto che collaboratori e stakeholder mi hanno offerto. 

L’Italia rappresenta un mercato strategico per Lilly. Perché il nostro Paese è così importante? 
Sì, l’Italia è un paese strategico, da qui esportiamo in più di 65 paesi nel mondo. Stiamo parlando di milioni e milioni di pazienti che usano una medicina con scritto sulla scatola ‘Made by Eli Lilly Spa Sesto Fiorentino’. Questo è un motivo di orgoglio per noi. Ma non da oggi. La scelta fu fatta 65 anni fa, quando il mondo era molto diverso. Quando abbiamo aperto lo stabilimento qui a Sesto Fiorentino, producevamo antibiotici, ma la svolta è arrivata con la produzione di insulina che ci ha portato a essere protagonisti in gran parte del mondo. Oggi abbiamo stabilimenti produttivi in nove paesi, tra cui l’Italia. 

Produzione, ma anche ricerca. Per un’azienda farmaceutica è fondamentale.
Nel 2023, Lilly ha investito oltre 9 miliardi di dollari a livello globale in ricerca e sviluppo. In Italia, grazie ai suoi investimenti, conta 50 studi clinici e si posiziona come la quarta azienda per nuovi studi clinici avviati.

Ma perché proprio l’Italia? Di solito le multinazionali scelgono altri paesi per investire dove ci sono meno vincoli.
La scelta dell’Italia dipende da un fattore chiave: dal capitale umano presente nel Paese e dall’ambito strategico. Abbiamo fatto questa scelta 65 anni fa e l’abbiamo rinnovata. Nelle aree produttive ogni 15-20 anni dobbiamo decidere se continuare a investire in un determinato paese. Qui ci sono persone talentuose e altamente qualificate. Questo ci spinge a continuare a investire qui anche se a volte sembra difficile per la burocrazia.

Lilly ha oltre 100 anni di storia. La proprietà non è mai cambiata?
L’azienda è sempre rimasta indipendente anche se è molto attiva nel merger and acquisition. Finanziariamente siamo in ottima salute. Preferiamo investire in piccole imprese, in startup, finanziarle per farle crescere e poi lavorare insieme a loro piuttosto che avere partner esterni. 

Quale è il vostro punto di forza?
Ne abbiamo tanti, ma sicuramente Lilly è una delle aziende più veloci nello sviluppo di terapie, che siano frutto della nostra ricerca o degli accordi con piccole aziende e startup. Per questo ci stiamo focalizzando sempre più sulla proprietà intellettuale. Che alla fine è il vero valore.

Un valore immateriale molto importante, però voi avete anche valori economici e industriali molto importanti.
Per policy di gruppo non forniamo dati di bilancio, ma posso dire che direttamente e indirettamente attraverso l’indotto contribuiamo al Pil italiano per circa 1,5 miliardi di euro. 

Invece, gli investimenti a quanto ammontano?
Negli ultimi 20 anni abbiamo investito 1,4 miliardi nel Paese. Nel 2023 abbiamo annunciato un investimento di 750 milioni di euro per ampliare le capacità del sito produttivo di Sesto Fiorentino e per potenziare la nostra collaborazione con i partner terzi in Italia.  Questo secondo me è molto importante perché ingegneri,  medici e ricercatori del Paese stanno lavorando affinché i prodotti innovativi siano disponibili sul mercato. 

La vostra struttura internazionale che possibilità di crescita dà ai dipendenti?
Parlavo dell’innovazione e della scienza, ma anche a livello gestionale, commerciale abbiamo grandi possibilità di crescita facendo esperienze internazionali, a contatto diretto con altre culture: questo aiuta i talenti italiani a crescere. Ne abbiamo tanti impegnati in vari settori: per esempio il responsabile di sito produttivo della Francia è un italiano; chi  gestisce i mercati europei e israeliano è un’italiana; abbiamo tanti italiani anche nella sede centrale di Indianapolis, proprio perché utilizziamo una policy di mobility dei talenti. 

La sanità italiana è una delle più avanzate del mondo, ma con molte nubi all’orizzonte. Come vede il futuro del settore nel nostro Paese?
È un settore strategico per il Paese, ma anche per l’Europa. Lo ha detto anche Mario Draghi nel suo rapporto. Il pharma è sano, lavora bene e ha ripercussioni positive sulla sanità pubblica. L’importante è avere un ambito che garantisce protezione ma che dà anche supporto all’innovazione, perché le sfide del sistema sanitario si possono solo risolvere con la tecnologia, quella farmaceutica ma non soltanto.

Poi c’è tutto il tema dei brevetti e della difesa della proprietà intellettuale.
È un tema molto importante perché aiuta a vincere sfide molto difficili come quelle dell’Alzheimer, del diabete, dell’obesità, e tutte le altre malattie croniche non trasmissibili su cui stiamo lavorando, che costano tanto al sistema sanitario ma che si possono risolvere con le tecnologie e con le politiche sanitarie adeguate.

Su queste malattie si aprono le praterie della prevenzione.
Assolutamente. Si può fare prevenzione e si possono fare diagnosi precoci perché queste malattie spesso sono collegate ad altre malattie. L’obesità, per esempio, è associata a numerosi problemi di salute, come malattie cardiovascolari, diabete e alcuni tipi di tumori. Se troviamo un modo per prevenire le complicazioni dell’obesità possiamo affrontare altri problemi prima che sorgano. 

Quale è il segreto del successo di Lilly?
Oggi tanti vedono il valore della capitalizzazione della Lilly (oltre 800 miliardi di dollari alla Borsa di Wall Street, ndr), ma dietro c’è la pipeline più ricca del settore. Questo è perché noi, per anni e anni, abbiamo investito più del 25% del nostro fatturato in ricerca e sviluppo. È una scelta chiave per l’industria farmaceutica perché a volte altre aziende hanno preso altre direzioni strategiche. Lilly ha sempre investito in ricerca e sviluppo anche quando le cose non andavano molto bene. Oggi abbiamo più di 60 nuovi progetti per malattie cardiometaboliche, cardiovascolari e altre patologie. Abbiamo alle spalle 30 anni di ricerca con investimenti superiori agli 8 miliardi. Dietro c’è una strategia basata su un investimento disciplinato. Non è detto che tutti i progetti vadano a buon fine, ma d’altra parte senza rischi non possiamo scoprire nuove medicine.  

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