L’Università Campus Bio Medico a Roma ha di recente ospitato, per la prima volta in Italia, Emtech, l’evento più importante che Mit International Review organizza ogni anno sui temi dell’innovazione. Il Centro Elis (Educazione Lavoro Istruzione Sport) sta lavorando da tempo sull’innovazione tecnologica a supporto della formazione dei giovani talenti per l’inserimento nel mondo del lavoro. Opus Dei si presenta così protagonista nel campo dell’educazione e della formazione al lavoro. Ne abbiamo parlato con Giorgio Fozzati, giornalista, membro della direzione dell’Opus Dei per l’Italia.
Partiamo dalle origini. Quando nasce l’Opus Dei e che cosa è oggi?
San Josemaría Escrivá fondò l’Opus Dei, Opera di Dio, il 2 ottobre 1928. Si meravigliò davanti a questa ispirazione divina, perché si rese subito conto che una cosa così non c’era dai tempi dei primi cristiani: donne e uomini, cittadini del mondo che imparano a trovare Dio nel lavoro quotidiano, negli affetti, nelle amicizie, nello sport e in tutte le belle realtà che viviamo nella nostra vita. Mettere insieme fede e lavoro, preghiera e impegno sociale, testimonianza e gioia di vivere, tutto senza soluzione di continuità, in un’unità di vita che fa uscire il cristiano dalle dinamiche dell’aut aut per entrare in quella dell’et et. Una spiritualità che non ha bisogno di adattarsi ai tempi, perché non esce mai dal tempo in cui ogni donna, ogni uomo vive. Io ho conosciuto l’Opus Dei grazie ai miei genitori. Mio padre era stato nascosto nella casa di Varese di Francesco Moneta quando era ricercato dai nazisti, perché era partigiano, e da quel momento nacque un’amicizia che sarebbe durata tutta la vita. Moneta era l’industriale delle pentole in cui i cibi non attaccano, fece conoscere a papà l’Opus Dei a Napoli, dove noi eravamo emigrati da Torino, facendo il percorso inverso ai tanti che salivano al nord per trovare lavoro. Ho chiesto l’ammissione all’Opus Dei da giovane studente, ho frequentato la facoltà di giurisprudenza alla Statale di Milano e poi il lavoro in tante città italiane, sempre nel campo della formazione. Posso dire di non essermi mai annoiato: non ho passato nemmeno un giorno con le mani in mano.
Tra le tante attività spiccano l’Università Campus Bio-Medico e l’Elis, entrambe legate alla formazione. Possiamo dire che questo è uno dei campi privilegiati dell’ Opus Dei?
Ci sono molte realtà in giro per il mondo che riflettono lo spirito dell’Opus Dei. Nascono dalle esigenze dei diversi territori, narrano storie di donne e uomini per i quali niente è indifferente: dalle scuole nelle favelas di San Paolo al poliambulatorio a Kinshasa, da Netherall House, il college a Londra, alla Punlaan School, istituto tecnico professionale per giovani donne in Filippine. Se c’è un insegnamento chiaro che abbiamo ricevuto da san Josemaría è che niente e nessuno deve esserci indifferente. In Italia il Campus Bio-Medico, con la sua Università e il Policlinico, è un esempio di lavoro al servizio di chi soffre e per la formazione di una nuova generazione di medici, ricercatori, ingegneri biomedici ed esperti di tecnologie per lo sviluppo sostenibile. Ci lavorano persone competenti e preparate, di ogni provenienza, senza alcuna distinzione di genere, di idee e di fede: chiunque venga a lavorare al Campus sa che è un ambiente cristiano, dove verrà rispettato per le sue convinzioni, ma dove gli verrà chiesto un impegno personale per costruire relazioni vere a servizio degli altri, soprattutto di chi soffre. Elis, acronimo che sta per ‘Educazione, Lavoro, Istruzione, Sport’, come la definì il fondatore dell’Opus Dei Josemaría Escrivá, è “l’università del lavoro”. Da 60 anni forma giovani al lavoro e li aiuta a inserirsi nelle attività produttive: è un’opera sociale a tutto tondo, che è cresciuta negli anni andando di pari passo con le innovazioni del lavoro e delle nuove tecnologie. Oggi è un centro di eccellenza nel bel mezzo del quartiere Tiburtino, quartiere vivace, ben lontano dagli agi pariolini.
Comunque l’uomo e la donna al centro della missione, sia dal punto di vista della scienza della vita che – con Elis – da quello della transizione digitale?
La ricchezza dell’umanità è sempre affascinante, a qualsiasi latitudine ci si muova. A volte mi piace pensare, più che alla parità di genere, alla grande condivisione e reciprocità che c’è tra la donna e l’uomo, questo sorreggersi e integrarsi nel progetto di vita che ci accomuna, sia nel fondare insieme una famiglia che nell’intraprendere le mille strade del lavoro, del volontariato, della cura per chi è rimasto indietro. La tecnologia arriva e passa, lascia strada ad altre tecnologie, in un turbinìo di possibilità che a volte rischia di ubriacare. L’umanità della donna e dell’uomo rimane il punto di riferimento, il baricentro della vita bella che ci tocca di vivere momento per momento. Mi piace pensare a un uomo che sorride, che guarda all’evoluzione del progresso con occhi sempre curiosi e meravigliati, da bambino alla continua scoperta della Bellezza. Chi si meraviglia non invecchia mai.
Qual è il rapporto dei giovani con la religione oggi?
Ho avuto la fortuna di trascorrere gran parte della mia vita sempre a contatto con giovani studenti, ricercatori, specializzandi e questo mi ha consentito di mettermi continuamente in discussione in modo sano, ascoltando e imparando da persone più giovani di me a guardare il mondo con una diversa prospettiva. E mi sono accorto che i giovani, oggi come ieri, in realtà hanno bisogno di testimoni credibili, più che di dotte disquisizioni e dottrine teoriche. È la storia di sempre: la nostra religione non è la religione del libro, dei sermoni, delle liturgie. È la religione del Cristo vivo: fino a quando non incontro Cristo nella mia vita, ho solo una fede galleggiante, disancorata dalla vera vita cristiana. La realtà che viviamo è fatta di guerre atroci, di un’anestesia globale sui dolori della gente, condita con un consumismo edonista che non guarda in faccia ai guai del pianeta: tutto questo non è indifferente ai giovani di oggi, che sono capaci di ribellarsi mettendosi in gioco personalmente. In ognuno di loro c’è una grande fame di speranza, inquietudine e ricerca di senso e di significato. Ed è un grande spettacolo vederli così gioiosamente partecipi della loro vita.
C’è attenzione all’etica? Sarà una barricata alla ‘minaccia’ tecnologica?

C’è una riflessione di Escrivá che mi ha sempre colpito per la visione, per come ci sprona ad avere uno sguardo aperto al trascendente, in contemplazione delle meravigliose realtà del mondo: ‘Per te, che desideri formarti una mentalità cattolica, universale, cito alcune caratteristiche: ampiezza di orizzonti e vigoroso approfondimento di ciò che è perennemente vivo nell’ortodossia cattolica; anelito retto e sano — mai frivolezza — di rinnovare le dottrine tipiche del pensiero tradizionale, nella filosofia e nell’interpretazione della storia…; una premurosa attenzione agli orientamenti della scienza e del pensiero contemporanei; un atteggiamento positivo e aperto di fronte all’odierna trasformazione delle strutture sociali e dei modi di vita’ (Da Solco, n° 428). Con un insegnamento di questo tipo non c’è proprio verso di costruire barricate e muri, ma ponti ben progettati che consentano l’accesso alle tecnologie a tutti. Ricordo un bellissimo film di Zhang Yimou, Non uno di meno: narra la storia di una giovane insegnante in uno sperduto paese di campagna cinese che si impegna per non lasciare fuori dalla scuola nessuno dei giovani studenti che le sono stati affidati. C’è a mio avviso un qui pro quo di fondo quando si affronta la questione etica, in qualsiasi campo, e perciò adesso anche nei confronti delle nuove tecnologie. Si pensa che con i regolamenti, le procedure, i codici di comportamento si possa risolvere il problema. La realtà è che, se non si cambia prospettiva, se non c’è un’adeguata formazione della coscienza per cui le persone sono davvero libere di scegliere e di perseguire il bene personale e quello comune, a poco o nulla servono i codici e le procedure. Nel nostro mondo così accelerato, se non ritroviamo il gusto di fermarci a riflettere, a guardare con un minimo di prospettiva i fatti e gli avvenimenti, se non coltiviamo una visione storica, è come se continuassimo a giocare a mosca cieca.
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