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30 ottobre 2025

Perché oggi l'economia reale deve essere sociale

È aperta fino al 12 novembre la consultazione sul Piano italiano per l’economia sociale, promosso dal ministero dell’Economia
Perché oggi l'economia reale deve essere sociale

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Di Paolo Venturi, direttore di Aiccon Research Center

È aperta fino al 12 novembre la consultazione pubblica sul Piano italiano per l’economia sociale, promosso dal ministero dell’Economia e delle finanze. Un passaggio importante, ma che non va letto come l’ennesimo esercizio di ricognizione amministrativa. Il valore del piano non sta nel perimetro che disegna, ma nel segnale che può lanciare: quello di un cambio di paradigma. Negli ultimi anni abbiamo innovato le forme giuridiche — con la nascita di società benefit, imprese sociali e nuovi modelli di impresa responsabile — e consolidato la dimensione della compliance, con metriche, rendicontazioni e standard esg.

Ma il punto oggi non è più come rendicontare. È cosa vogliamo rendere possibile. Serve un nuovo orizzonte di sviluppo, in cui tutte le imprese — pubbliche, private e cooperative — siano parte di una stessa infrastruttura trasformativa, orientata non solo alla crescita, ma alla rigenerazione del valore.

Perché la verità è che l’economia reale, oggi, non può che essere sociale. Non esiste impresa che cresca senza comunità, né mercato che prosperi senza fiducia. Eppure, l’Europa negli ultimi anni sembra aver arretrato: la sostenibilità si è tradotta in adempimento, non in direzione. Ma le sfide del nostro tempo — disuguaglianze, transizione verde, digitalizzazione — chiedono tutt’altro: un modello che metta al centro la sostanza dell’economia, non solo la sua forma.

Il pericolo della ricchezza senza sviluppo

In questa prospettiva, il Premio Nobel per l’Economia 2025 a Joel Mokyr, Philippe Aghion e Peter Howitt restituisce centralità a una delle domande più urgenti del nostro tempo: come tradurre l’innovazione in benessere diffuso? Non basta conoscere la formula dell’innovazione se non si comprende come essa distribuisce — o concentra — il valore aggiunto. Il rischio è quello di un modello che genera profit without prosperity: ricchezza finanziaria senza sviluppo umano, produttività senza coesione. Riconoscere il valore dell’innovazione non significa idolatrarla. Significa comprendere che il progresso tecnico/scientifico (necessario) deve andare di pari passo con un progresso sociale. In un mondo in cui il capitale cognitivo è la risorsa più scarsa, la vera innovazione sarà quella che saprà generare fiducia, relazioni e senso di appartenenza.

Ecco perché l’economia sociale non è un settore, ma un modello di sviluppo che può parlare a tutta l’economia. Oggi in Italia rappresenta oltre il 9% del Pil, con circa 428mila organizzazioni, 1,9 milioni di occupati e più di 5,5 milioni di volontari. È il tessuto invisibile che tiene insieme territori, imprese e istituzioni, generando coesione, servizi e capitale umano. Un’economia che non misura il successo in base ai margini, ma alla capacità di tenere insieme persone e luoghi, creando valore condiviso. Il piano del Mef può diventare un banco di prova di questa visione — non come strumento di settore, ma come segnale politico: l’inizio di una nuova stagione in cui innovazione e coesione tornano a essere parte della stessa equazione. Perché la vera modernità non è produrre di più, ma produrre insieme ed  il vero realismo economico, oggi, è riconoscere che reale è sociale

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