Livio Proli
Leader

Inclusività, estetica, artigianalità, lusso: Livio Proli racconta il futuro del gruppo Missoni

Un pesce nell’acqua. Si vede subito che Livio Proli, amministratore delegato del Gruppo Missoni, è tagliato per il mondo della moda. Fisico asciutto, ben curato, modi eleganti, abiti semplici ma di ottima fattura e tessuti ricercati. In fondo, non è proprio arrivato ieri.

Ha cominciato a 18 anni con uno stage in Vestimenta di Trento dove ha avuto la fortuna di entrare presto in contatto con il ceo Massimo Mosterts. Vestimenta era licenziataria di Armani etichetta nera (prima linea) che all’epoca aveva varie licenze in sedi diverse: stile e comunicazione a Milano, a Trento la prima linea, il mondo tessile a Como, a Modena, la città di Proli, il mondo casual. Mosterts aveva 32 anni e una visione molto particolare già proiettata anche al marketing quando invece la moda era ancora molto legata all’aspetto tecnico-produttivo. “La difficoltà era produrre e consegnare con qualità”, racconta Livio. “La domanda superava abbondantemente la capacità dell’offerta. Era il 1984. Il ceo aveva l’idea di creare una programmazione del lavoro che fosse anche figlia delle esigenze commerciali e non solo di quelle qualitative tecnico-produttive e aveva voglia quindi di collegare tutte le attività aziendali. Ai tempi la priorità era l’aspetto tecnico con capi perfetti che dovevano rispettare i requisiti che i designer richiedevano per onorare le loro idee”. 

È cominciata così l’avventura che ha proiettato Proli sempre più in alto fino ad arrivare dove è adesso: amministratore delegato del gruppo Missoni (una firma storica, storica per davvero, del made in Italy, 110 milioni di euro di fatturato). Nella sua carriera Livio ha seguito i percorsi più glamour e affascinanti della moda facendo una lunga tappa da Armani. E allora, per raccontare il presente, forse bisogna cominciare dal passato.

Livio, cosa è cambiato in questi 30 anni?
Beh. Facile dire che è cambiato tutto. O quasi. Il consumatore ha preso sempre più potere con l’incremento culturale che ha accompagnato il progresso del mondo, grazie alla velocità con cui oggi possiamo vedere e comparare le cose. Tecnologia, informatizzazione, digitalizzazione hanno dato maggior consapevolezza dell’offerta della moda. Oggi il consumatore sa riconoscere in maniera più approfondita la proposta di una casa di moda e riesce a valutare se coincide con il modo di essere e di sentirsi.

In sostanza consumatori più informati e consapevoli?
Sì. C’è più consapevolezza da parte di tutti con una capacità critica rispetto a ciò che uno pensa o vuole essere. Ora il prodotto è anche un’esperienza che va a incastrarsi con quelli che sono i requisiti di chi lo indossa. 

Significa che mentre prima era la moda a dettare le regole, oggi è l’inverso?
Noi dobbiamo portare la creatività verso un ingaggio con i valori autentici di una persona. Una volta il gioco ora era solo push. Oggi è push and pull.

Bene. Andiamo un po’ più sul personale. Come è arrivato da Missoni? 
Sono arrivato a Missoni proprio senza… sapere di arrivarci (sorride). Era il periodo della pandemia, avevo pensato di trascorrere un anno sabbatico dopo 20 anni di Armani, bellissimi e intensi. Ero a casa per recuperare la mia vita. Avevo una famiglia che avevo trascurato per troppo tempo e a 54 anni arriva un momento in cui è necessario fare una sintesi. Così una mattina ho spiegato al signor Armani che la mia vita mi portava da un’altra parte e in quel momento non volevo più tornare a lavorare. Volevo fare qualcosa di sociale per regalare la mia conoscenza a chi ne aveva bisogno.

E l’ha fatto davvero?
Sì. Pensavo di stare a Modena, costruire una squadra di basket per i bambini, come poi ho fatto, e di applicarmi in ambito formativo-sociale. Ero sereno, avevo recuperato bene i rapporti familiari e personali. Durante la pandemia molti hanno sofferto a stare a casa, per me è stato straordinario perché a casa, prima, non ci stavo mai. Quindi ho ritrovato le mie cose e ho interagito con persone che amavo ma con cui non avevo prima condiviso tanto tempo. 

Poi un giorno… Le storie belle cominciano sempre così.
Infatti un giorno, un bel giorno, mi chiama Maurizio Tamagnini, amministratore delegato del Fondo Strategico Italiano, e mi dice “Mi fai una cortesia? Noi abbiamo rilevato una quota del marchio Missoni (41,2%, ndr) e sono emerse in questa fase di pandemia delle difficoltà che vorremmo superare velocemente. Ci servirebbe un punto di vista diverso. Mi daresti un’occhiata all’azienda?”. 

Quindi tanti saluti all’anno sabbatico.
Mi sembrava un’idea stimolante anche se non avevo immaginato come potesse andare a finire. Così ho studiato il dossier e mi sono innamorato del marchio Missoni dopo averlo studiato perché non lo conoscevo visto che non era competitor di Armani. Questo studio mi ha appassionato, e Tamagnini mi ha ‘incastrato’ con uno sgambetto facendomi parlare con Rosita Missoni e la sua famiglia. 

E che impressione le ha fatto?
Quando l’ho conosciuta sono letteralmente scivolato dentro l’azienda. Ho sentito come delle vibrazioni da persone che vivono per i valori e non tanto per la materialità delle cose che riescono ad accumulare. L’attrazione è stata lì. 

Ma i problemi per cui l’avevano chiamato quali erano?
Ho notato che il marchio si era un po’ cristallizzato e si trattava solo di vedere come far ripartire una bellissima locomotiva che aveva magari rallentato ma con tanti vagoni interessanti. La cosa era intrigante per questo, come lo è stato conoscere la famiglia, molto in gamba, e poi vedere che gli azionisti, il Fondo Strategico Italiano e la famiglia, avevano un grandissimo feeling e un grande rispetto della consistenza del brand. Percepito questo ho detto “ci sono tutti gli ingredienti per far bene, nonostante la pandemia”. 

Così è diventato amministratore delegato di Missoni?
È stato tutto molto veloce. Siamo partiti da alcune video conference di confronto e poi, dopo soltanto una settimana, sono diventato amministratore delegato con le deleghe. Evidentemente c’erano condizioni di ingresso facili perché era tutto trasparente e vero. 

Le prime mosse quali sono state?
Il 4 maggio 2020 quando sono diventato ad, sono andato subito alla sede principale di Sumirago in provincia di Varese a vedere il tutto. C’era da fare una riorganizzazione a 360 gradi partendo da una nuova strategia. 

Come?
La vision l’hanno scritta Ottavio e Rosita. Ho preso la loro indicazione e l’ho rimessa al centro. La stella polare l’hanno disegnata nel 1953. E quella non si tocca. È là. Poi ovviamente, visto che siamo nel 2022, siamo andati verso la digitalizzazione e l’informatizzazione. Abbiamo inserito anche altre competenze e mestieri che prima non c’erano. Bisognava avere un’organizzazione di stampo manageriale in cui il ceo non può permettersi di imporre una strategia. La propone e la fa approvare dal cda e solo in caso affermativo poi può portarla avanti. 

Visto che ha parlato di stella polare quali sono oggi i punti cardinali di Missoni?
I punti cardinali di Missoni sono: l’inclusività, che già faceva parte dei valori di Missoni; l’estetica, che deve abbellirti cosi come darti gioia e farti stare bene con capi colorati, divertenti ma raffinati. Poi c’è l’artigianalità, che deve essere la sintesi di un grande lavoro tecnico, il risultato di una miracolosa arte. Infine il lusso: abbiamo chiuso la seconda linea (20 milioni di fatturato) proprio per restare nella fascia alta del mercato. 

Chi è stato il creativo della transizione?
L’ideatore creativo del transito è stato Alberto Caliri, che ha dato un refresh al brand. Ora Alberto, che ha lavorato per 15 anni a fianco di Angela Missoni, guiderà Missoni Home su cui puntiamo molto: non a caso abbiamo acquisito la licenza, che si occupava di produzione e distribuzione del marchio, in quanto l’ufficio stile è sempre stato in capo a Rosita Missoni. Filippo Grazioli è invece il nuovo direttore creativo delle linee fashion donna e uomo e dell’immagine del lifestyle.

Queste mosse hanno già avuto riscontri sul fatturato?
Innanzitutto, il piano che abbiamo preparato è quinquennale. L’azienda ha un patrimonio netto importante e abbiamo trovato il sistema finanziario molto propenso a sostenerci. È stato un percorso facile perché tutti hanno sempre visto i nostri numeri con un occhio intelligente. Abbiamo quindi dato il colpo di reni e siamo ripartiti. Quest’anno, coda della pandemia e guerra permettendo, abbiamo stimato di raggiungere 110 milioni di euro, con l’obiettivo di arrivare nel 2025 a 155 milioni di euro. 

Le politiche commerciali invece come sono impostate?
Come dicevo abbiamo chiuso la seconda linea, riqualificato la prima e fatto una revisione della collezione. Quando hai un creativo che partorisce una collezione tutto ciò che c’è dietro e dentro deve arricchire la customer experience. Dobbiamo far sì che gli elementi di questa progettazione vadano dentro al negozio. Dobbiamo portare tutta questa forza creativa dentro a quel contenitore, fisico e digitale, e chi presenta il prodotto deve saperlo raccontare. Per questo è importante la formazione e la passione per lo stile. 

Andando verso il lusso, l’e-commerce, togliendo un po’ l’alone di esclusività, potrebbe essere un problema?
L’e-commerce rende tutto democratico, però se sai sfruttare bene attraverso la tecnologia digitale, l’editing del tuo prodotto, può essere un vantaggio. La cosa che mi piace dell’e-commerce è che toglie ogni trucco: nel senso che puoi vedere il prodotto e lo puoi tranquillamente comparare con gli altri. È vero che ha rotto il paradigma lusso uguale per pochi, essendo internet aperto a tutti, ma ora si deve anche dimostrare il corretto price for value. La differenza tra un prodotto buono e un prodotto di lusso sta tutto nei dettagli e nella qualità tanto quanto nella desiderabilità.

Riguardo il tema della sostenibilità, che nella moda è molto sentito, come vi siete attrezzati?
Abbiamo creato il pay off ‘going green’. Stiamo procedendo per essere eco-friendly ma non lo siamo ancora. Il percorso è lungo. Sarebbe troppo comodo usare il tema della sostenibilità per vendere di più. Abbiamo capito subito che è un percorso culturale on going, che si può recuperare ma non si deve accelerare forzatamente. 

Pay off a parte, cosa state facendo sul piano industriale?
Abbiamo definito il nostro percorso di recupero dell’efficienza e di rispetto dell’etica sul piano delle forniture industriali sia delle materie prime che delle lavorazioni dei prodotti finiti cosi come abbiamo iniziato una revisione sostenibile degli ambienti aziendali (sedi operative e store) e ci siamo dati un timing. Ci sta assistendo una società esterna per procedere in questo percorso che sarà di tre anni. Alla fine saremo valutati e certificati. Nel frattempo, abbiamo deciso di non vendere e raccontare questa cosa altrimenti sarebbe strumentale.

Che tipo di strategia di comunicazione state portando avanti?
Abbiamo studiato con delle agenzie un piano di comunicazione che nasce su un perno fondamentale: non comunicheremo più solo un prodotto ma il lifestyle. La nostra offerta va oltre la categoria merceologica. Si parla di Total living Missoni. Possiamo creare degli ambienti nostri e personalizzare dei lidi di mare, degli hotel, dei residence, gli store e qualsiasi spazio favorisca un luogo di vita stilosa e gioiosa. Questo è il lifestyle Missoni. La comunicazione quindi parte da questo e l’idea creativa dev’essere allineata tra valori e codici estetici (ziz zag, colore, fiammato). Un altro obiettivo è di essere italiani nel mondo e riportarci in quella dimensione di internazionalità ‘nice’, cioè piacevole. Dobbiamo essere city urban e non solo più country legati a Sumirago. Va bene mantenere le radici, ma andiamo verso un mondo in cui il lusso è nella grande città ed il cliente che spende cifre importanti lo fa a Milano, Londra, Hong Kong, Parigi. Dobbiamo quindi pensare a quel tipo di clientela che vuole vestire urban con i codici Missoni perché si riconosce nei valori di Ottavio e Rosita. 

Qual è il rapporto con i suoi collaboratori?
Ho un buon rapporto con loro, diretto e franco. Sono demanding, severo ma non insensibile. E sapranno tutto da me anche nei tempi giusti. È importante che tutti conoscano tutto nei sincronismi corretti per migliorare le cose. Sono molto attento a proteggere i colleghi quando fanno errori. Ho dato deleghe a tutti e sanno che devono decidere. Meglio sbagliare che non fare nulla. Ma l’eventuale errore lo studiamo e non lo ripetiamo e capire l’errore è il miglior strumento di crescita. Faccio capire che la trasparenza e la verità possono essere scomode ma fanno vincere sempre mentre l’alibi e la bugia sono i nostri peggiori nemici. Continuo comunque a credere fermamente che l’unico avversario da evitare è l’egocentrismo.

Un fondo di investimento quando entra dentro un’azienda poi vuole uscire. Come è prevista la way out per il Fondo Strategico?
Intanto il Fondo Fsi ha allungato i tempi di permanenza a bordo a causa della pandemia. Nel loro mandato non sono cosi frenetici nella redditività della loro operazione e sanno darsi i tempi giusti. La way out è subordinata a quando tutti saranno soddisfatti dei risultati. 

Ultima domanda. Cambiamo completamente scenario. Lo chef Paolo Griffa ha creato il cannellone Missoni, avete intenzione di entrare nel food?
È chiaro che il concetto di lifestyle ci fa tenere d’occhio anche il mondo food and beverage. Anche perché la pandemia ci ha fatto capire che la gente al mangiar bene non rinuncia mai. Però siamo anche molto rispettosi del fatto che nella cucina e nel mondo del vino ci vuole una grande conoscenza e una grande profondità. Quindi fare operazioni toccata e fuga ci spaventa. Siamo dei buoni partner nel creare l’ambiente e sicuramente estenderemo il concetto di total living nel food and beverage ma non entreremo in cucina.

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