Nicolao Stefano
Small Giants

Non solo vetro: alla scoperta degli atelier veneziani della moda e della gioielleria

Contenuto tratto dal numero di febbraio 2025 di Forbes Italia. Abbonati!

Cosa succede quando un artista crea un’impresa? Costruisce bellezza. Spariglia le carte, innova, crea manufatti unici nati dalla combinazione dei codici dell’arte con quelli dell’imprenditoria. È nell’atelier, laddove la logica dei piccoli numeri si concilia con la cura del dettaglio, che il pensiero estetico si lascia contaminare dall’audacia di chi imprende.

Atelier di cui è disseminata una città come Venezia, così bella da ispirare bellezza, con un passato da dominatrice del mondo, internazionale eppure sempre se stessa: un distretto del lusso per intenditori, non gridato, al riparo dai marchi cari ai nouveaux riches, semmai espressione di un luogo di incanti e di tradizioni secolari. Che vuol dire stoffe, vetri, gioielli, costumi, mestieri antichi di cui è essenziale preservare l’esistenza. 

Gli atelier a Venezia

L’abito Delphos di Fortunty

Tra gli atelier brilla Fortuny, intitolato all’omonimo artista nato spagnolo (Granada)  e rinato veneziano. Mariano Fortuny approdava a Venezia nel 1898, abitando e operando a Palazzo Pesaro, oggi sede del museo a lui intitolato. Fu pittore, incisore, scenografo, fotografo, innovatore nel campo dell’illuminotecnica, creatore di stoffe per arredamento e abbigliamento. Vestì Sarah Bernhardt, Eleonora Duse, Martha Graham, e pure Albertine, personaggio chiave del romanzo di Proust Alla ricerca del tempo perduto.

I tessuti per l’arredamento continuano a essere realizzati sulla base dei disegni originali nella fabbrica alla Giudecca, mentre gli showroom Fortuny in San Marco e Dorsoduro, Monaco e Parigi, espongono lampade, diffusori, capi d’abbigliamento, borse in seta e velluto. Un repertorio, quest’ultimo, prodotto nei laboratori veneziani, da mani veneziane, destinato a scomparire se Lino Lando, cresciuto a pochi metri da Palazzo Pesaro, a partire dagli anni Ottanta non l’avesse rilanciato. Tra questi modelli senza tempo, con motivi classicheggianti e orientali, spicca l’abito Delphos, classe 1909, ispirato a una scultura greca rinvenuta a Delfi, composto da cinque teli in satin o taffettà di seta, lavorati con una plissettatura realizzata con un processo manuale grazie al quale ottenere fino a 450 pieghe per ogni telo.

Battiloro a Venezia

Marino Menegazzo (1954), invece, crea foglie d’oro con tecniche tradizionali. È un battiloro in cerca di giovani disposti ad apprendere la raffinata arte che Venezia mutuò da Bisanzio per impreziosire vetri, stoviglie, opere d’arte. Dai 300 battiloro registrati a Venezia nel Settecento, si arrivò all’assoluta scomparsa nel secolo successivo. Nel 1926 Cesare Ravani riaccendeva la fiamma avviando l’attività poi rilevata da Mario Berta, suocero di Menegazzo, che nel 1976 si univa all’impresa di cui oggi è il titolare: la Mario Berta Battiloro.

Un lavoro certosino, il suo: basti pensare che per creare una foglia d’oro servono otto ore e martelli fra i tre e gli otto chili. Nell’atelier Mbb si lavorano anche argento e altri metalli preziosi, tutti trasformati in sottilissime foglie destinate a decorazione (mosaicisti, vetrai, doratori, pittori, scultori), cosmesi e alta cucina. 

È nella Venezia di Goldoni, delle maschere, del Carnevale, del primo teatro pubblico accessibile fin dal 1637 pagando il biglietto, che ha preso forma il Nicolao Atelier, dove Stefano Nicolao fino a oggi ha creato 15mila costumi per produzioni cinematografiche e lirico-teatrali. Suoi, per esempio, alcuni costumi di Elisabetta I nel film Elizabeth (1998) di Shekhar Kapur con Cate Blanchett, così come quelli di Farinelli – Voce regina su disegno di Olga Berluti, vincitrice del David di Donatello.

Nel 1980 lavorò sul set del kolossal Marco Polo, spingendosi in Nepal con una sartoria mobile d’alta quota. Ha collaborato alla fornitura e realizzazione dei costumi per i film Casanova e Il mercante di Venezia. Abiti che vengono poi noleggiati per rievocazioni storiche, eventi di gala, feste in costume, serate di gala. Il 2 marzo firmerà la festa carnevalesca Venetian Reflections a Palazzo Labia, in omaggio a Casanova.

La lavorazione del vetro

L’arte veneziana da primati assoluti è quella della lavorazione del vetro, con  vertice in Murano. Attorno a  marchi conclamati, da Barovier&Toso a Venini, iDogi, NasonMoretti, si muove una costellazione di piccoli atelier come quello di Alberto Striulli, nome anzitutto associato ai bicchieri esagonali e dai vivaci colori lagunari, arte che si estende a lampadari e oggettistica. Altro maestro vetraio è Cesare Toffolo, a 14 anni già nel laboratorio del padre, a sua volta figlio di un maestro nella fornace Venini. Sono famosi i suoi soffiati e le miniature in vetro di Murano prodotte in esemplari unici, ma anche gioielli con vetro specchiato, a filigrana multicolore, anfore e coppe: opere d’arte finite nei musei.

È proprio dal vetro che trae ispirazione la gioielleria veneziana. Inevitabile per Marina e Susanna Sent, cresciute a Murano, a pane e vetro, abili nel declinare l’arte appresa dai nonni e poi dal padre in gioielli e manufatti d’arte d’una modernità contrassegnata dal minimalismo di elementi trasparenti e dalla fantasia di elementi colorati e vivaci. Si distinguono per gioielli essenziali, d’eleganza gioiosa e fresca, assai veneziana. Attente alla moda e alla tradizione muranese, per il 2025 proporranno oggetti e gioielli con murrine dal design d’ultima generazione.

Attombri

I fratelli Stefano e Daniele Attombri avviavano invece l’attività di gioiellieri (Attombri) 40 anni fa, quando l’era delle conterie stava volgendo al termine. Acquistarono tutte le scorte di perline, rare e preziose, ottenute tagliando sottilissime bacchette di vetro monocromatico. Mettevano poi in campo una tecnica per infilare a mano le perline su fili di metallo utilizzando i lunghi aghi tradizionali. Le creazioni sono gioielli e accessori che fondono artigianato, moda, design e arti applicate.

Altra designer di gioielli con perle veneziane è Marisa Convento, fieramente impiratessa, ovvero colei che infila (impirar sta per infilzare come si farebbe con il piron, la forchetta) con l’aiuto di lunghi aghi e sottili fili per ottenere mazzi di perline vitree di conteria, prodotte per secoli a Murano e pure usate come merce di scambio con i mercati più remoti.  

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