Incontriamo Rawan poco distante dal Souq al Alawi, nel cuore di Gedda, la più evoluta e libertaria tra le città dell’Arabia Saudita. Rawan indossa il niqab che le avvolge corpo e viso, ma ci tiene a specificare che si tratta di una semplice scelta conservativa. Una scelta resa possibile da quando, nel 2018, il principe ereditario Mohammed Bin Salman, potentissimo deus ex machina dell’apparato politico ed economico saudita, stabilì che gli abiti neri femminili della tradizione islamica potevano non essere indossati, purché le donne scegliessero altri “abiti pudichi e rispettosi”.
Dalla lunga manica nera del niqab di Rawan spunta un iPhone 13 Pro Max, che lei usa per scattare foto di accessori sobri di design e di abiti “pudichi e rispettosi” di sua creazione, da pubblicare sul suo profilo Instagram. Dopo una breve chiacchierata ci separiamo da Rawan pensando che forse sarà proprio la sua generazione – quella degli attuali under 30 sauditi – a trasformare in realtà Vision 2030, il programma con cui una manciata di anni fa la famiglia reale ha deciso di cambiare i connotati di parte degli usi e costumi locali, aprendo all’influsso delle mode occidentali e al paradigma della globalizzazione.
La nascita di Vision 2030
Dal 2016, quando furono diffusi i primi dettagli del progetto, è partita una comunicazione non stop per mostrare come la visione modificherà alcuni pezzi del dna saudita. Ultima in ordine di tempo è la notizia che dal 2022 sarà consentito alle donne guidare i taxi. Solo nel 2017 venne concesso loro di prendere la patente. Due anni dopo, per la prima volta nella storia saudita, venne stabilito che i visti per l’accesso al regno sarebbero stati rilasciati anche ai turisti, che avrebbero potuto fare domanda online e ottenerli nel giro di dieci minuti.
Alcuni tra i 96 punti fissati nelle 200 pagine del Vision 2030 danno il senso di come la monarchia voglia influenzare anche gli stili di vita individuali dei sudditi. Si legge, ad esempio, che è fissato l’obiettivo di aumentare la percentuale di persone che fanno esercizio fisico almeno una volta alla settimana – dal 13% al 40% – e accrescere l’aspettativa di vita media: da 74 a 80 anni.
Queste percentuali e i numeri sono anche il frutto di paragoni con le popolazioni di stati vicini. Di riflesso, passeggiando sul lungomare di Gedda, non è insolito sentirsi dire che la città potrebbe presto costruirsi un’identità tutta fitness e divertimento come quella di Tel Aviv. Se si visita il centro città, si ricevono indicazioni sulla zona dove dovrebbe transitare il nuovo treno hyperloop sviluppato dalla Virgin di Richard Branson, che in 40 minuti collegherà Gedda con Dubai, altra importante pietra di paragone locale. E ancora, dirigendosi verso nord, nel meraviglioso sito Unesco di Hegra, pare certo, a sentire le guide, che siamo di fronte alla Petra araba.
Una questione di sopravvivenza
Le ragioni del Vision 2030 esulano da una presunta fascinazione del principe ereditario per le attrazioni occidentali e travalicano persino le questioni finanziarie. Il tema, piuttosto, è quello della sopravvivenza della specie e dell’immagine che la monarchia vuole dare all’esterno. Se si considera che il greggio saudita si esaurirà nell’arco di qualche generazione, si capisce perché la famiglia reale abbia deciso di investire parte dei profitti di Aramco, la compagnia nazionale di idrocarburi che ha fatturato 400 miliardi di dollari nel solo 2021, per garantire il futuro del regno quando il mondo non acquisterà più petrolio, ma idrogeno e batterie al litio per auto.
Così, all’obiettivo occidentale della neutralità climatica nel 2050, Bin Salman ha contrapposto un orizzonte temporale più prossimo per presentare al mondo (e soprattutto agli investitori) un’Arabia Saudita più aperta e attenta alle questioni ambientali. E ha messo sul piatto della bilancia una cifra impossibile da formulare per chi non sia in grado di produrre ed esportare dieci milioni di barili di greggio al giorno: dai 7mila ai 12mila miliardi di dollari.
Una piccola parte di questi investimenti ha già dato i suoi frutti. Ovunque ci si muova, mezzi meccanici sono in azione. A Gedda, un’intera spianata di città vecchia è stata abbattuta per lasciare spazio a nuovi negozi e a hotel di lusso. Nella poco distante Yanbu – il reattore del potere economico saudita, una città che galleggia sul petrolio – piccole e grandi opere vedono la luce. Le rotonde stradali, oggi disadorne, vengono abbellite con opere d’arte, mentre le vicine oasi ospitano sempre più flora non autoctona, il cui mantenimento nel deserto è possibile solo grazie a un sistema di irrigazione capillare, che utilizza l’acqua desalinizzata del Mar Rosso. Gli 1,3 miliardi di dollari spesi di recente per fornire acqua potabile a Yanbu sono solo una goccia nel mare delle decine di miliardi già impiegati per irrigare i territori di una gigantesca landa desertica quale è l’Arabia Saudita.
Il turismo è il nuovo petrolio
I soldi necessari per realizzare le attività sponsorizzate dal Vision 2030 vengono generati dal lavoro incessante delle più grandi raffinerie del mondo. Entrarvi è impossibile, avvicinarsi è rischioso, a fotografarli da lontano si viene ripresi dalle guide. Intanto a Yanbu stanno nascendo quartieri dormitorio, con file di case tutte uguali che ospiteranno solo i lavoratori dell’industria petrolifera. Presto le abitazioni saranno affiancate da negozi e pos bancomat, così da evitare commistioni tra operai e visitatori.
Già, i visitatori. Se oggi a girovagare per l’Arabia Saudita ci si sente quasi dei pionieri, tra pochi anni a queste latitudini sbarcheranno – anche grazie al nuovo itinerario di Msc, la prima compagnia crocieristica europea ad aver avuto il permesso di solcare il Mar Rosso – carovane di turisti, che trasformeranno il settore dell’accoglienza nella vera chiave di volta della diversificazione. È in quest’ottica che si sta lavorando al Red Sea Project, imponente progetto di eco-turismo affidato alla compagnia The Red Sea Development Company (Trsdc).
Il piano interesserà un’area grande quanto la Lombardia, posta sotto la città di Tabuk. Qui, a una manciata di chilometri da Sharm el-Sheikh, saranno operativi entro il 2022 un porto turistico, un aeroporto e sedici boutique hotel con tremila camere. In poco più di cinque anni, su una zona di deserto e di marina corallina quasi completamente vergine faranno capolino un milione di persone, che convoglieranno nelle casse saudite sei miliardi di dollari l’anno. Molte si recheranno su questa sponda del Mar Rosso solo per ammirare il nuovo Coral Bloom: undici hotel completamente sostenibili che saranno progettati dallo studio di architettura britannico Foster + Partners sull’isola a forma di delfino di Shurayrah, parte di un arcipelago di 90 isole sulla costa ovest del Paese, tutte interessate dal Red Sea Project.
Il sito di AlUla
Il cuore del futuro turistico sarà però il sito archeologico di Hegra, nella provincia di Medina. Oggi quest’area, la cui punta di diamante è AlUla, primo sito patrimonio Unesco dell’Arabia Saudita, conta appena 150 mila visitatori l’anno, che diventeranno due milioni entro la fine del decennio. Amr al Madani è l’uomo al centro di questo progetto. Laurea ad Harvard, già cofondatore della startup di apprendimento creativo TalentS, oggi è l’amministratore delegato della Royal Commission for AlUla, l’ente nato per sovrintendere alla zona. Ha già avallato iniziative di marketing come l’invito sul posto di influencer occidentali, fashionistas da Dubai e artisti di fama come Andrea Bocelli, che lo scorso gennaio si è esibito tra gli specchi della Maraya Concert All, una cattedrale di specchi costruita vicino alle tombe nabatee che rendono unico il luogo.
L’AlUla che verrà sarà ancora più attrattiva dell’attuale. I rendering mostrano installazioni d’arte futuristiche a cielo aperto, migliaia di nuove palme piantumate per ricreare oasi, residenze per artisti nel deserto, tram da e verso l’aeroporto e festival musicali tutto l’anno. Le nuove generazioni saranno strappate alla coltivazione di datteri e saranno impiegate come guide turistiche e autisti.
Il controllo dei reali
Tutto questo si svolgerà sotto il rigido controllo della famiglia reale. Un fatto che pone forti preoccupazioni su questioni cruciali: la libertà di pensiero, quella di stampa e la tutela delle minoranze, solo per citarne alcune. Fronti su cui l’Arabia Saudita non può essere paragonata a una democrazia occidentale. Se dunque – parafrasando un celebre politico fiorentino che qui è di casa – sprazzi oggettivi di rivoluzione sono visibili, non bisogna illudersi che la Sharia, la legge araba ispirata al Corano, sia destinata a perdere peso in un prossimo futuro.
Mentre ci spostiamo da Gedda verso Medina – la seconda città sacra dell’Islam dopo La Mecca, dove ancora la religione è centrale e tutte le donne devono obbligatoriamente indossare l’abaya o il niqab – sbirciamo il profilo Instagram di Rawan. Ci accorgiamo che in tutte le foto il suo volto è sfocato, in altre è stato cancellato con il pennarello digitale dell’iPhone, in altre ancora la testa è tagliata all’altezza del collo. I cambiamenti richiedono tempo. E solo il tempo dirà quanto Bin Salman abbia intenzione di modernizzare il regno e dove all’interesse economico verrà consentito di prevalere sulle credenze religiose islamiche.
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