Quello che emerge dai numerosi osservatori sul lavoro giovanile ospitati da Fondazioni, Saloni dell’orientamento e Festival dedicati al futuro del lavoro e dei nuovi stili di vita è un’aspirazione della generazione Z a fare le cose bene, a dar voce a nuove istanze, a dimostrare che esiste un’altra strada. Il desiderio è quello di dimostrare che la loro generazione ha il potere di semplificare il mondo e sbrogliare i nodi di cui, a giudicare dalle varie misurazioni e predizioni in cui sono immersi, sono colpevoli le generazioni precedenti. Il famoso cambio di paradigma è il macigno che oggi i ragazzi della generazione Z si portano nel petto, perché l’ansia di sbagliare, oggi che si è tentati di eliminare la “scusa” del destino o di qualcosa che trascende la responsabilità personale, è la compagna di un viaggio di individuazione che per i loro genitori aveva un bagaglio certamente più leggero.
Mentre cercano di orientarsi in una direzione, si perdono in multiversi artificiali, composti da consigli che non arrivano più soltanto dalle famiglie – quindi dalle influenze più prossime e cariche di premure – ma anche da altri portatori di interessi della loro vita: aziende, attivisti, consulenti, politici, in un’esplosione di tutorial e opinioni che spesso non lasciano fiato e tempo. È però vero che non sono tutti canti delle sirene e che esistono concretamente degli interessi condivisi da mettere in relazione.
La generazione dei Neet
Si rischia tuttavia di non dire che siamo in pieno laboratorio, in tempo di prove ed errori per tutte le generazioni, che inventano neologismi come Neet per trovare, senza accorgersene, il capro espiatorio della complessità. Secondo il Censis, il nostro Paese detiene il primato europeo per il numero di Neet, i giovani che non studiano e non lavorano: il 23,1% (il 32,2% nel mezzogiorno) dei 15-29enni a fronte di una media Ue del 13,1%. A questo si aggiunge una dispersione scolastica del 12,7% tra i 18-24enni. Il tema di cosa cercano i giovani dal lavoro si intreccia con quello che offre il mondo del lavoro e cosa offre la scuola.
“Lo skill mismatch tra formazione e bisogni delle imprese è molto alto in Italia e deriva anche da una questione culturale: l’aumento delle iscrizioni ai licei mostra una tendenza a svalutare la formazione professionale e il prestigio delle figure professionali tecniche”, spiega Maria Laura Fornaci di Fondazione Brodolini, che proprio per studiare il fenomeno del lavoro nel futuro ha creato l’Osservatorio Future of Workers.
Oggi il sistema degli Istituti Tecnici Superiori può offrire una strada più sicura in termini di occupabilità e la trandisciplinarità e le competenze trasversali, prima fra tutti l’imparare ad imparare, spinta dai bisogni dell’Industria 4.0 allontana anche dal rischio, sentito dalle famiglie o dai ragazzi stessi, di non sviluppare competenze di vita utili in situazioni di incertezza, per cui una volta perso un lavoro ci si potrebbe ritrovare senza strumenti di rinegoziazione del proprio ruolo sul mercato”.
Individualizzazione dell’esperienza lavorativa
In questo senso, l’agenda europea per le competenze 2020, la raccomandazione del Consiglio sull’istruzione e la formazione professionale (IFP) e la dichiarazione di Osnabrück sull’IFP sottolineano l’importanza della competenza imprenditoriale. Nel maggio 2021, il Cedefop ha avviato uno studio per sostenere i responsabili politici, le parti sociali, i fornitori di IFP e altre parti interessate con nuove prove su come la competenza imprenditoriale sia integrata nell’IFP. Fondazione Brodolini ha sviluppato diversi progetti, come Futuri(im)perfetti e Formare il domani, all’interno dei quali è emersa l’importanza per i giovani della possibilità di gestire il proprio tempo, di un ambiente lavorativo inclusivo e rispettoso, della meritocrazia e di spazi di condivisione confortevoli.
“Ci si aspetta un’individualizzazione dell’esperienza lavorativa (si pensi ai diversi orari mattutini legati ai diversi stili di vita) nel rispetto dei principi di diversità ed inclusione, che se ben gestita porta a una leggerezza di relazioni utili alla produttività”.
In una società cresciuta sul mito della libertà (di opinione, sessuale, di movimento, di espressione culturale) una produttività basata sul controllo non è immaginabile, anche se gli strumenti tecnologici permetterebbero oggi un livello di controllo a livelli mai raggiunti prima. Ma è ormai chiaro che non è la tecnica a guidare l’economia e che sistemi rigidi si schiantano a contatto con l’onda anomala dell’incertezza e della complessità.
Agency
La parola che più sintetizza l’informe desiderio che è destinato a muovere i rappresentanti del futuro verso il lavoro è forse Autoefficacia, che nella versione anglofona Agency presenta qualche sfumatura in più: è la fiducia di una persona nelle proprie capacità, abilità, potenzialità di esercitare un controllo sugli eventi e gestire la propria vita. È quindi il senso di possedere le abilità ma anche le condizioni ambientali per svolgere con successo un determinato compito che si può avvertire come problematico. Il concetto di Agency rimanda soprattutto alla capacità degli individui di agire autonomamente in situazioni specifiche e di prendere decisioni proprie.
Non bisogna però cadere nella retorica del Volere è potere: è quello che tiene a sintetizzare sulla copertina del suo libro “Da Grande” Giulio Xhaet, Partner e Digital Strategist di Newton. “Ci sono vaste opportunità ma sono traballanti e creano più ansia che motivazione. Nella mia esperienza con i ragazzi ho notato pensieri intrusivi e bloccanti come ‘non posso permettermi di sbagliare’ o ‘non devo perdere questo treno’, ma il punto è che affrontando il proprio percorso, ognuno ha un suo ritmo e questo deve portare a non sentirsi in svantaggio. Invece di paragonarci affannosamente agli altri, è più sano confrontarsi con i noi stessi del passato”.
Nel suo libro, Xhaet cita e illustra diverse importanti fonti trasversali di pensiero, da Paul Sartre e Vincent Van Gogh passando per la Yolo Economy di K. Roose. Secondo tale corrente di pensiero possiamo innescare un godimento dilettevole che ci guida nel maturare un reddito pur mantenendo un ottimo livello di libertà personale (un tema abbastanza affascinante da diventare trending topic).
Il modello delle startup
Questo approccio ha spinto molte persone (soprattutto dopo il terremoto del Covid) a un life switch dovuto al pensiero per il quale “si vive una volta sola” e il racconto, spesso social, di queste svolte ha il potere di motivare ma anche di bloccare i ragazzi, perché il contesto può essere stimolo di appartenenza o minaccia di confronto. Il modello dell’avventuriero era fino a oggi legato alle startup, un modello imprenditoriale che ha un certo appeal tra i più giovani, anche se non sempre si hanno chiari i rischi che fanno da presupposto a questo stile di attività lavorativa.
Il fallimento è un passaggio quasi obbligato per chi intraprende il percorso che si ispira alla Silicon Valley (chi non ha fallito non ha, secondo i Venture Capitalist, maturato ancora consapevolezza sul modello di business) quindi più che un’attività lavorativa si presta a essere una palestra sul campo parallelo all’Università.
“Chi crea una startup sa che deve investire il suo tempo finanziandosi nei primi anni in altro modo: con il crowdfunding, con fondi familiari, con il proprio lavoro. Ci sono anche fondi pubblici, ma non sono così facilmente accessibili”, spiega Paolo Marenco, ideatore dell’esperienza di scambio Silicon Valley Study Tour. “Un esempio di attività ibrida dipendente/startup è rappresentato dai ragazzi di PickEat, che si occupano di preordini nella ristorazione e negli eventi. Lavorano sabato e domenica per nutrire il loro progetto, mentre negli altri giorni si finanziano con il proprio lavoro”.
Nell’esperienza di ascolto di Marenco i ragazzi pongono come priorità la libertà di lavorare da remoto da dove vogliono, di potersi occupare in maniera trasversale di più cose per maturare più competenze rispetto a quella principale, di poter rompere gli schemi e avere l’opportunità di rischiare.
L’attenzione alla sostenibilità
Per superare quello che il New York Times nel 2021 ha proposto come emozione dell’anno, il languishing, quel vuoto allo stomaco che spesso è un vuoto di senso e di significato delle proprie azioni, i giovani sposano cause non tanto come consumatori di brand activism, ma utilizzando le loro risorse e le competenze tecniche acquisite nel creare impatto. “Quello che appare evidente è che oggi i giovani sono piuttosto sensibili nel rilevare le esigenze dei loro tempi o dei loro territori”, spiega Fulvia Guazzone, ideatrice del Festival dei Giovani e di una piattaforma dedicata alle idee imprenditoriali degli studenti.
“Tra i ragazzi si rileva una grandissima attenzione all’ambiente e allo spreco alimentare, alla sostenibilità, ai servizi alla persona sempre più efficienti e a portata di mano. Questo sicuramente influenza le loro scelte, anche se penso che il vero cambiamento non sia quale professione vorranno fare, ma come. Oggi i giovani mettono in conto che nessuna scelta sia definitiva e che la carriera debba essere compatibile con uno stile di vita che lasci spazio a crescita personale e tempo libero.”
La campagna per la difesa del Parco del Beigua
Se il liceo è il momento delle idee e delle aspirazioni, con l’Università si dà concretezza alla vocazione, come hanno fatto Chiara Fiorani e Carlotta Ricaldone con un progetto di comunicazione sociale che ha virato le competenze e conoscenze maturate al Dipartimento di Architettura e Design dell’Università di Genova in una call to action dedicata a un problema del territorio, dando il segno di un reale cambio di paradigma in cui è l’uso innovativo del servizio a creare impatto.
Con una tesi da 110 e lode e dignità di stampa, le studentesse hanno ideato una campagna per difendere e valorizzare il Parco del Beigua e le comunità limitrofe, dal punto di vista sia sociale sia ambientale, dalla minaccia che comporterebbe l’avvio di un sito estrattivo, creando in questo modo una contro-narrazione (e quindi riequilibrando il dibattito) rispetto alle argomentazioni dedicate a sostenere la miniera del Beigua.
In questo senso hanno dato forza a una voce altrimenti debole, arricchendo il confronto. Dare forza alla propria voce, essere ascoltati e maturare credibilità è una delle esigenze di molti giovani. “L’obiettivo della campagna – scrivono Fiorani e Ricaldone che hanno avuto come relatore il Professor Andrea Vian – è quello di acuire la consapevolezza circa l’inestimabile valore che il Parco del Beigua offre dal punto di vista faunistico e floristico. In stretta connessione viene affrontato il tema della salute pubblica circa gli effetti causati dall’esposizione all’ amianto. Sono stati realizzati alcuni manifesti e pagine social dedicate con lo scopo di raccontare all’opinione pubblica l’importanza di tutelare la biodiversità del parco e di riflesso salvaguardare la nostra salute.”
La strada per far uscire i giovani dal loro e dal nostro Blursday, letteralmente “giorno sfocato” (termine uscito dal Words of an Unprecedented Year di Oxford Languages e ripreso da Xhaet nel suo libro) passa forse da un attivismo diretto, non mediato da interessi legati a un concetto di Pil ormai al collasso.
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