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Di cosa si parlerà a Davos 2020

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Le élite mondiali si preparano a volare in Svizzera per il meeting annuale dei leader politici, manager, membri della società civile e accademici più influenti della Terra. A celebrare il 50esimo anniversario del World Economic Forum (Wef) arriveranno sulle Alpi, nella località sciistica di Davos, un totale di 53 capi di Stato e circa 600 conferenzieri. La quattro giorni di incontri inizierà il 21 gennaio, seguita da innumerevoli giornalisti.

Se affrontare il cambiamento climatico sarà una delle priorità del leader riuniti alla conferenza, le delegazioni si concentreranno anche sul rallentamento economico globale, la crisi della globalizzazione e delle tensioni geopolitiche di questi giorni, a cominciare dall’Iran in e la Libia. Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che non si è presentato l’anno scorso, arriverà fresco dell’uccisione (tramite drone) del generale iraniano Qassem Soleimani e nel bel mezzo della crisi scoppiata con Teheran. Il titolo scelto per il 2020 è “Stakeholder per un mondo coeso e sostenibile, con gli esperti che tenteranno di rispondere alle preoccupazioni legate all’ambiente emerse nel corso dell’ultimo anno.

Tra gli ospiti di alto profilo ci saranno anche l’attivista svedese Greta Thunberg e il Presidente della Commissione Europea Ursula Von der Leyen mentre si attende una risposta per la partecipazione dal presidente del Brasile, Jair Bolsonaro, e dal primo ministro finlandese Sanna Marin, la più giovane donna Primo ministro in carica. 

Le origini della conferenza risalgono al 1971, quando per iniziativa dell’economista tedesco Klaus Schwab 450 partecipanti da 31 nazioni si ritrovano in questa destinazione vacanziera upper class per il simposio inaugurale dell’European management. Il meeting è organizzato con l’idea di rendere più competitivo il mondo imprenditoriale del Vecchio Continente. Le sfide non mancano e già nel 1974 i politici che iniziano a essere invitati alla conferenza si trovano a fronteggiare una sconvolgente crisi petrolifera, il collasso di Bretton Woods e la guerra Arabo-israeliana. Nel 1987 il convegno diventa globale e prese il nome di World Economic Forum, un’organizzazione non profit con centinaia di impiegati e la sponsorizzazione da parte di oltre un migliaio di aziende di primissimo piano da tutto il mondo.

 I partecipanti al forum, di solito concentrati sui temi economici, col passare degli anni si sono occupati di tematiche sempre più vaste. Negli ultimi tempi i rappresentanti istituzionali di Cina e India hanno catturato l’obiettivo dei fotografi più di molti altri leader europeo. Eppure, per quanto all’evento si sia parlato di crisi globali, difficilmente si ricordano strette di mano o dichiarazioni decisive per risolvere i conflitti in corso. Tra le eccezioni l’edizione del 1988, quando Grecia e Turchia firmarono a Davos una dichiarazione per evitare la guerra tra i due Paesi. O quella del 1992, quando Nelson Mandela incontrò l’allora presidente sudafricano Frederik de Klerk in quella che fu la loro prima apparizione fuori dal Sudafrica.

 

Per i critici, com’è facile immaginare, Davos incarna l’immagine di un raduno iper-elitario e distante dalla gente comune, nel quale gli uomini d’affari più potenti del mondo “fanno rete” lontano dal giudizio delle piazze e dallo scrutinio dell’opinione pubblica. Tra i 4000 partecipanti a Davos nel 2017, soltanto 1/5 erano donne. Erano rappresentate 99 nazioni, ma 2/3 dei partecipanti venivano dall’Europa occidentale e dal Nordamerica.

 

L’economista premio Nobel Joseph Stiglitz, che ha partecipato a Davos fin dal 1995, due anni fa ha scritto che nonostante le sperequazioni di reddito crescenti e il climate change, gli a.d. presenti in Svizzera sono troppo distanti dalla realtà per capire i guasti della globalizzazione e la conseguente ascesa del populismo, convinti che ogni problema si possa risolvere con il taglio delle tasse ai ricchi e più deregolamentazione. Secondo il rapporto Oxfam del 2018 almeno l’82% della ricchezza mondiale nel 2017 è andato all’1% più ricco della popolazione globale. Dal canto suo, il Wef ha risposto a queste obiezioni dicendo che molti dei partecipanti a Davos provengono ormai da organizzazioni non governative. È a partire dal 2014 che la non-profit Oxfam International pubblica il suo report sulle disuguaglianze e la povertà nel mondo in coincidenza con Davos. 

 Cosa ci possiamo aspettare dall’edizione di quest’anno? Con tutta probabilità un aggiornamento dell’edizione precedente: molti dei temi trattati nel 2019 sono ancora sul piatto, anzi in alcuni casi ancora più centrali nel dibattito culturale e politico. In particolare, molti incontri verteranno sul modo in cui si misura il valore economico, e sui modi per includervi fattori come il benessere dei consumatori l’interesse delle comunità.

Dopo il discorso memorabile tenuto l’anno scorso, la guerriera ambientalista Greta Thunberg parteciperà a Davos per il secondo anno di fila. Nel suo speech del 2019, passato alle cronache come quello della “nostra casa va a fuoco”, la 17enne svedese lancerà un appello per trovare alternative al combustibile fossile. “Chiediamo che i leader facciano la loro parte per porre fine a questa follia”, ha scritto recentemente insieme ad altri giovani attivisti per il clima. Schwab ha scritto in un comunicato che la gente si “sta rivoltando contro le élite economiche da cui ritiene di essere stata tradita”, e che quest’anno bisogna sviluppare un “Manifesto 2020 di Davos” per ripensare le modalità con cui si giudicano le corporation e i governi sul tema della difesa ambientale. Il messaggio di Thunberg al Wef dello scorso anno ha avuto un impatto enorme a livello mediatico e sul modo in cui gli studenti fanno attivismo, ma c’è da capire in che forme i delegati a Davos faranno seguire azioni concrete alle pacche sulle spalle e ai cenni di assenso.

Un altro tema che sarà centrale alla conferenza è il deteriorarsi della crescita economica globale, nel bel mezzo del conflitto commerciale tra i grandi blocchi geopolitici, i tassi d’interesse negativi in Europa e una generale ritirata dall’ottimismo pro-mondialista. Sarà anche il debutto a Davos per Christine Lagarde a capo della Bce, accompagnata da una ridda di interpretazioni su quanto sarà diversa da Mario Draghi: se “falco” oppure “colomba” nell’affrontare la tenuta dell’euro, la richiesta di un ripensamento dei dogmi monetaristi e le tensioni provenienti dalle periferie europee, afflitte da deindustrializzazione e disoccupazione.

Anche quest’anno il Forum farà leva più che mai sulla sua funzione di organizzazione di cooperazione internazionale pubblico-privato per concentrarsi sulle ramificazioni della cosiddetta “globalizzazione 4.0”. Trattasi della “quarta rivoluzione industriale” – per usare le parole di Schwab – “plasmata da tecnologie avanzate dove il mondo digitale e quello fisico-biologico si combinano”, cambiando fortemente il modo in cui i singoli individui, i governi e le aziende si relazionano gli uni con gli altri. I governi si impegneranno formalmente a tradurre questi cambiamenti in nuove opportunità, piuttosto che a subirne le potenziali esternalità negative – sul mercato del lavoro, sulla coesione sociale e sull’ambiente.

Il tema globalizzazione del resto sarà centrale proprio a causa del perdurante protezionismo tra le grandi economie, con l’avvicinarsi del primo armistizio (“Fase uno”) nella guerra fredda commerciale tra Cina e Stati Uniti, da un lato, il blocco di potere europeo costituito da Francia e Germania dall’altro (affetto dalla debole domanda interna all’Ue) e in mezzo una Gran Bretagna che sta per uscire dall’Europa con numerosi punti interrogativi circa i suoi futuri accordi commerciali.

Inutile negare però che l’ospite più atteso è senz’altro Trump. L’anno scorso l’inquilino della Casa Bianca ha deciso all’ultimo momento di non presentarsi, per seguire a Washington lo shutdown del governo. La presenza americana a Davos è comunque sempre stata più l’eccezione che la regola: negli ultimi quarant’anni si conta qualche comparsata di Reagan e poi nulla fino al 2000 – ai tempi del secondo mandato di Bill Clinton. Il paradosso di questa conferenza è sempre lo stesso da quattro anni a questa parte: quello di trovarsi con un Xi Jingping “paladino” del libero commercio e “il leader del mondo libero” Trump che ribadirà invece i precetti dell’America First (anche se della risurrezione del manifatturiero da quelle parti per ora non c’è molta traccia).

 Per riassumere, dato che il cambiamento climatico che l’economia globale non sembrano trovarsi in una condizione migliore rispetto a 12 mesi fa, c’è da immaginare un World Economic Forum focalizzato ancora su entrambe le questioni. Tuttavia, da qui ad attendersi svolte radicali o risoluzioni dettagliate ce ne vorrà.

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