Come un cliente è arrivato ad acquistare nel mio negozio (virtuale o fisico che sia)? Come è sbarcato sul mio negozio e cosa è successo da quando ci ha scoperto al momento dell’acquisto? Sono queste alcune delle domande più comuni alle quali gli imprenditori e le aziende cercano di rispondere quotidianamente per proiettarsi nella cosiddetta nuova era moderna. E lo fanno rivolgendosi sempre di più al marketing di attribuzione, ossia quell’area che analizza il processo di ‘identificazione’ delle azioni, o meglio degli ‘eventi’ (come essere esposti a un banner pubblicitario scorrendo un social o un sito internet o cliccarci sopra e atterrare sul sito di quel prodotto), compiuti dall’utente (consumatore) che permettono di raggiungere un determinato obiettivo (compilare un form con i suoi dati, prenotare una visita, entrare nel negozio, acquistare).
Studiato con attenzione dalle principali big tech mondiali (Google, Facebook, e Amazon) – che tra l’altro sviluppano e propongono dei propri modelli – il marketing di attribuzione gioca un ruolo fondamentale anche nel raccogliere le tracce di tutti quegli eventi che sono stati identificati. Operazione che, nel mondo digitale, può avvenire solamente esaminando determinati pezzi di codici, anche detti cookie (di cui abbiamo parlato in un articolo precedente). Ovviamente, possiamo anche acquisire dati del mondo offline attraverso approssimazioni date da soluzioni come i ‘drive to store’ (nelle soluzioni ad esempio di Google o Facebook), oppure attraverso l’integrazione nelle piattaforme di attribution dei dati di accesso fisico o di vendita che il cliente riuscisse a fornire.
Partendo dal presupposto che ci sono molteplici soluzioni proposte per l’attribuzione, tuttavia è importante precisare che tutte hanno dei limiti con i quali confrontarsi, che possiamo raggruppare in tre macro-insiemi:
1. fortemente dipendenti dalla qualità del tracciamento;
2. dovuti a ecosistemi chiusi;
3. dovuti ai modelli applicati.
Partendo dal primo, per ‘tracciamento’ intendiamo il fatto che quando si acquisisce l’informazione su un touchpoint (es. l’utente ha visto un contenuto su un social) è necessario associare quel touchpoint a un canale specifico (nell’esempio, il canale è appunto il social e poi si può specificare quale social). Se ci muoviamo su touchpoint digitali, l’associazione avviene solitamente aggiungendo un parametro o al contenuto
visto o al link cui il contenuto punta (es. landingpage.html?utm_medium=social). In questo caso, il sistema analitico processerà automaticamente l’informazione a partire dal parametro.
Se questo è un limite, d’altra parte è anche un punto di partenza per la nostra capacità di comprendere come gli utenti si comportano rispetto un brand: ossia, la base di una analisi consistente è la generazione di dati consistenti. Ci sono ecosistemi chiusi, come Facebook e Amazon, in cui già la lettura dei dati inerenti ai loro propri confini offre indubbiamente degli insight di grande valore per il peso specifico che hanno, che rendono le analisi di attribuzione interessanti, anche se chiuse.
Ci sono poi limiti dovuti ai modelli applicati che, a loro volta, possono essere distinti in due tipologie principali: quelli euristici (cioè basati su regole), e quelli basati sui dati (la cosiddetta data driven attribution). Nel caso dei primi, si identifica qual è il touchpoint che si ritiene più interessante e si attribuisce o tutto il peso a quel punto o si distribuisce secondo dei pesi predeterminati. Nel caso dei secondi, essi hanno il pregio di attribuire, tramite algoritmi, pesi diversi e variabili nel tempo ai vari touchpoint, considerando tutte le combinazioni dei percorsi di conversione degli utenti, compresi anche quelli che non convertono.
Analizzando, invece, i principali player digitali che propongono soluzioni, possiamo individuarne vantaggi e svantaggi.
Google Analytics: presenta una sezione che permette di confrontare i modelli di attribuzione, sia modelli euristici che un modello data driven proprietario. Ci sono, però, dei limiti principali:
● i pochi segnali in grado di superare la discontinuità cross device;
● la dipendenza da un corretto design e l’implementazione dei tracciamenti.
Facebook attribution: è il modello che al momento permette di colmare meglio i limiti dovuti al cross device o cross platform, ma ha due limiti principali:
● è fortemente dipendente dal tracciamento;
● funzionano bene i modelli euristici, mentre il modello data driven attuale
funziona solo sui canali proprietari Facebook e Instagram.
Amazon: ha recentemente rilasciato una versione beta dell’attribuzione, di tipo euristica che agisce solo rispetto all’ecosistema Amazon. Risponde alla necessità, sinora difficilmente tracciabile, di capire come agiscono le azioni di marketing che portano traffico verso Amazon.
In questo scenario, Intarget ha sviluppato un modello proprietario di attribuzione che risponda a tre esigenze primarie:
- data cleaning: i dati vengono ripuliti eliminando dedupliche e normalizzando i canali di provenienza del traffico;
- scalabilità dei dati: è possibile acquisire dati da fonti diverse (anche dati di CRM ed eventualmente anche dati di conversione e di resi offline),
- modello data driven: l’algoritmo che lavora sui dati pesa il contributo dei canali non secondo regole deterministiche ma personalizzando un approccio statistico classico del tema attribuzione.
Rispetto alla scalabilità dei dati, l’obiettivo finale è di analizzare l’omnicanalità, che prevede un continuo passaggio tra presenza virtuale e presenza fisica. Intarget attribution si basa sul modello di Markov, dove l’idea di fondo è stimare la probabilità di passare da uno stato (touchpoint) ad un altro e di valutare l’effetto che l’assenza di un dato touchpoint avrebbe sul conversion rate (il cosiddetto removal effect). Questo approccio evidenzia meglio il ruolo di touchpoint non immediatamente legati alla conversione e questo risulta un elemento importante in un anno come questo, dove la contrazione di budget richiede il migliore bilanciamento nelle azioni di marketing.
Un modello così costruito consente, inoltre, di monitorare costantemente il numero di passi verso la conversione e il tempo che passa dall’acquisizione del cliente all’acquisto vero e proprio. Studiando la correlazione tra i vari touchpoint, in termini di probabilità, di andare al passaggio successivo, l’analisi restituisce degli insight per ottimizzare questi passaggi ed accorciare il percorso e il time-to-buy.
Costruito il modello Intarget, abbiamo conseguentemente raffinato il nostro approccio strategico, che si basa sull’idea che gli insights più interessanti emergono da un confronto tra le informazioni che emergono dai vari modelli e che, di conseguenza, prevede tre step ben precisi:
- valutare il contesto: quali sono gli obiettivi di marketing e qual è la complessità del customer journey;
- impostare l’analisi: individuare i KPI, i modelli, le finestre temporali di analisi e la frequenza;
- estrarre insight: individuare dai KPI degli insights azionabili e completi.
Questo approccio strategico integrato ci ha portato a individuare il contributo di attività di brand awareness rispetto alle performance di vendita, scoprendo ad esempio un valore di 150 volte superiore a quanto si può vedere da una attribuzione last click, e in altri casi a isolare elementi di dispersione di budget portando a una ottimizzazione di circa il 10% del totale investito.
Infine, visto che ci stiamo spostando verso un’effettiva analisi omnicale, grazie alla partnership strategica siglata da intarget con CoreAnalytics, siamo ora in grado di evidenziare le correlazioni derivanti da tutte le azioni di marketing e comunicazioni rispetto all’efficacia ed efficienza, in termini di performance e ottimizzazione del budget. Siamo, quindi, in grado di integrare non solo i touchpoint digitali, ma anche le azioni di marketing sui canali tradizionali.
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