I miei genitori raccontano che le mie prime parole furono «Atafini Tutueddu», Altafini e Cuccureddu, due giocatori della Juventus degli anni ’70. Forse non è un caso se oltre a essere il direttore creativo di Deltatre, un’azienda che collabora con la Uefa e la Fifa, da 20 anni sono il responsabile italiano di Football Manager”. Parole di Alberto Scotta, quarantaseienne di Fossano, Cuneo, considerato il punto di riferimento dei calciofili. Almeno quelli per cui il pallone è bello anche nella sua simulazione digitale più realistica, appunto, Football Manager.
Sviluppato dalla londinese Sports Interactive, il videogioco gestionale sfrutta una rete di 1.300 osservatori in 51 Paesi – “Thailandia e Tagikistan compresi” – che permette di intercettare i futuri campioni ben prima che qualcun altro ne parli. Leggenda vuole che se avesse ascoltato suo figlio, grande fan di Championship Manager, la prima versione del gioco, nel 2002 l’allora allenatore dei Glasgow Rangers, Alex McLeish, avrebbe acquistato due adolescenti sconosciuti: il videogame parlava chiaro, tali Andrés Iniesta e Lionel Messi sarebbero diventati fortissimi.
Il motivo è evidente: sebbene oggi il calcio in Europa sposti 18 miliardi di euro perlopiù corrispondenti al giro d’affari di 31 club, non esistono squadre con il database di Football Manager: 900mila profili fra ex atleti, manager, allenatori, staff e giocatori in attività. “Solo in Italia sono più di 6.000 le società monitorate”, spiega Scotta, “4.842 stadi, 2.984 arbitri e assistenti, più tutte le competizioni fino al torneo Primavera e Allievi”.
Risultato? Con 12 milioni di copie vendute dal 2005, oggi Football Manager spopola anche fra chi, del calcio, ha fatto un mestiere. Non a caso, dal 2014, Sports Interactive ha una partnership con la data company Prozone, che con 80mila record è una delle due piattaforme più usate dagli osservatori professionisti (l’altra è Wyscout).
La parola chiave è verosimiglianza, una capacità precognitiva in Italia frutto di una rete di oltre 100 scout. “Mi inorgoglisce pensare a come tutto cominciò: nel 1996 chiesi di diventare tester di Championship Manager e mi venne risposto di raccogliere lo scibile sul Piacenza dell’anno prima. Trascorsi 24 ore a cercare sugli almanacchi Panini dati e carriere, poi aggiunsi i valori dei vari Cleto Polonia, Massimo Taibi e Totò De Vitis. Fui nominato head researcher. Dai circa 500 dati italiani di allora siamo passati ai 97.878 di oggi”. È l’indice di un legame sempre più stretto fra realtà e digitale. Nel 2015 i Dallas Cowboys sono stati la prima squadra professionistica a scegliere la realtà virtuale per allenarsi. Nel 2018 tutta la Nba si clonerà in versione digitale per inaugurare la prima lega professionistica in pixel.
“Anni fa incontrai Albertini alla vigilia di un’Italia Inghilterra a Torino. Demetrio mi rivelò che il Trap gli aveva chiesto consigli su alcuni calciatori inglesi, che nel gioco erano ben rappresentati. L’Italia vinse 1-0 con un gol di Gattuso. Amo pensare che in piccola parte sia stato merito dei nostri giochi”. Cioè della passione digitale di chi, fra le prime parole, nomina Altafini e Cuccureddu.
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