di Enzo Argante
articolo tratto dal numero di dicembre di Forbes Italia
“La filantropia è un asset importante per il Paese. In un mondo che soffre anche per la difficoltà che le istituzioni pubbliche hanno nel mettere a disposizione le risorse che servirebbero, sorge l’aspettativa che la filantropia possa addirittura fare supplenza allo Stato, laddove lo Stato non ce la fa più. Abbiamo di fronte mutamenti epocali che cambiano totalmente paradigmi e relazioni: cambiamenti climatici, andamenti demografici, la trasformazione digitale. Il tema non è conservare quello che c’è, ma costruire qualcosa di nuovo, fare innovazione sociale. La filantropia può giocare un ruolo importante perché, nel costruire nuovi assetti, può far sì che questi cambiamenti non travolgano i più deboli. Questioni enormi. Abbiamo una grande responsabilità, nel gestire e nell’indirizzare le risorse. Dobbiamo sempre pensare a cosa lasceremo a chi verrà dopo di noi. E domandarci, ogni volta che ci attiviamo: a chi serve? E, perché?”. Comincia così il dialogo con Giovanni Fosti, da pochi mesi presidente della Cariplo, tra le prime fondazioni al mondo. In 30 anni di attività la Fondazione Cariplo ha donato oltre 3 miliardi di euro, sostenendo più di 30mila iniziative. Il patrimonio più importante di cui dispone non è quello economico, che pure è ingente, quasi 8 miliardi di euro; motore che, mediamente, ogni anno, genera 160 milioni di euro destinati a centinaia di organizzazioni non profit, che con queste risorse realizzano più di mille progetti sociali, ambientali, di ricerca scientifica e nel campo dell’arte e della cultura. No, non è solo quello. È il patrimonio reputazionale uno dei suoi asset più importanti. È il luogo di conoscenza e di esperienza che ha costruito in quasi trent’anni di attività, con continue accelerazioni verso l’innovazione sociale. Anche per questo, e non solo per le risorse economiche, Fondazione Cariplo appare al centro di un sistema a cui istituzioni, aziende, cittadini e – perché no – la politica fanno riferimento. “La capacità di ascolto, unita a quella del fare concreto. Credo siano tra i fattori chiave che hanno messo la fondazione nella posizione che occupa e che ci responsabilizza. Un privilegio che non possiamo tenere per noi, ma che vogliamo condividere”. Appare oggi come una fucina di idee, che nascono dal basso, convogliando quelle che arrivano da ogni dove, attraverso le continue call e i bandi; un laboratorio, un tavolo di confronto. È un luogo di studio, oltre che di operosità, con uno staff di 88 persone. La sede, a Milano, è un via vai di gente, molti giovani, stranieri, prestigiose fondazioni di caratura internazionale, istituzioni e aziende. “Il miglior modo per affrontare i problemi che ci troviamo di fronte è unire le forze, le risorse, le competenze, lavorando insieme con obiettivi comuni. È responsabilità sociale che riguarda i singoli e le organizzazioni. Oggi ci sono molti soggetti e aziende che mettono al centro del loro agire la responsabilità sociale. Le società benefit, le imprese attente all’economia circolare,
ad esempio.
Anche la collaborazione con le aziende quindi è un asset strategico su cui stiamo investendo molto. Il futuro è fatto sempre più di alleanze profit-non profit, per strutturare un nuovo sistema di welfare di comunità, per generare occupazione per i nostri giovani, per avvicinare il mondo della scuola a quello delle imprese; per l’inserimento lavorativo delle persone più fragili, per gli adulti espulsi dal mercato del lavoro; ma anche per fare innovazione tecnologica: una startup sta realizzando una cintura di precisione in grado di guidare un non vedente nel camminare. Cosi si cambia davvero la vita delle persone. Ecco il futuro a cui ispirarsi”. In via Manin, nella sede in centro a Milano, si osservano i megratrend globali, si raccolgono dati e analisi, per impostare la programmazione dei prossimi quattro anni e prima di affrontare un problema: come per i Neet, i giovani che non studiano e non lavorano. Ragazzi-fantasmi usciti dai radar delle aziende, a cui non si rivolgono più per sfiducia; usciti dal mondo della scuola e isolati perfino dentro le loro famiglie. La fondazione è ricorsa all’”intelligence” e ai social network per scovarne mille e cercare di riattivarli. “Il primo passo per ridare speranze a questi ragazzi è farli sentire di nuovo dentro il contesto in cui vivono. Li abbiamo convinti a rimettersi in gioco. Ascoltare le loro interviste fa venire i brividi: non mi sentivo più nulla, dicono…”. Le sale riunioni della Fondazione Cariplo sono sempre piene, in attività costante, con uno scambio continuo tra il dentro e il fuori. “Sembra strano, ma l’attività filantropica, la donazione è “solo” l’ultimo, importante, passaggio. Quello che viene prima è fondamentale, lo studio dei fenomeni, la progettazione, la programmazione”. Stesso metodo per affrontare la povertà dei 20mila bambini che vivono a Milano, o per generare occupazione giovanile, per rammendare le periferie con il programma LaCittà intorno; le periferie non sono solo quelle delle città, ma anche le zone abbandonate in campagna o in montagna dove la Fondazione Cariplo sta operando con il programma Attivaree, per far rivivere la le Valli Resilienti, Valsabbia e Valtrompia, e l’Oltrepo più remoto. “Dobbiamo domandarci se quello che facciamo è a breve termine per guadagnare consenso o a medio lungo termine per ottenere davvero i risultati che vogliamo. Per me vale la seconda risposta, che presuppone metodo, impegno e rigore. La nostra aspirazione è creare valore per le persone e le comunità alle quali ci rivolgiamo.”
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