A cura di Ignazio Rocco, founder e ceo di Credimi
Quando si parla di innovazione, il pensiero va dritto alle intuizioni dirompenti che cambiano il mondo – o, meno ambiziosamente, creano un mercato. Tecnologie o metodologie di cui spesso sono artefici aziende nuove e guidate da tecnologia e digitalizzazione. Le famose startup e scaleup, che iniziano a essere sempre più spesso in cima alle agende dei governi e delle grandi corporate.
Eppure, da imprenditore del digitale, credo fortemente che startup e scaleup possano generare innovazione solo se, molto più a monte, si è lavorato sul capitale umano.
Un fronte su cui l’Italia non fa abbastanza: basti pensare che il nostro Paese è sesto in Europa nella classifica del tasso di abbandono scolastico. L’Italia non fa abbastanza per formare le competenze richieste dalle aziende 4.0, indirizzando per esempio i giovani alle materie STEM; non fa abbastanza per aumentare la partecipazione femminile al mondo del lavoro. Ed è paradossale: perché non ci può essere digitalizzazione e modernizzazione se non si attuano politiche inclusive che mirino a valorizzare quanto più possibile donne e giovani.
Oggi, per la prima volta da molti decenni, abbiamo l’occasione di agire, grazie ai 209 miliardi che saranno resi disponibili all’Italia dall’UE per far fronte alla crisi da Covid-19 attraverso la Recovery and Resilience Facility. Lo strumento mira a rilanciare la crescita nel continente attraverso un’economia strutturalmente più dinamica, che investa nei fattori abilitanti della crescita, con una attenzione speciale a: 1) economia digitale 2) sostenibilità ambientale 3) impedimenti strutturali alla crescita specifici dei singoli paesi. Le risorse della RRF sono fuori dall’ordinario e dovrebbero essere impiegate per interventi extra-ordinari. L’Associazione M&M – Idee per un Paese migliore, con la sua proposta Next Generation Italia, ha voluto mettere nero su bianco delle indicazioni sugli investimenti più importanti che andrebbero realizzati a beneficio della ripresa e della crescita del nostro Paese. Vediamone alcuni punti chiave.
Investire in Istruzione
Cosa c’entrano gli asili nido di cui parlo nel titolo? Forse non tutti hanno piena coscienza del fatto che l’investimento nelle strutture per l’infanzia, oltre che nell’istruzione in generale, è un moltiplicatore della crescita gigantesco. Le strutture per la prima infanzia sono un investimento che genera: maggiore partecipazione al lavoro dei genitori (donne e uomini); maggiore natalità; maggiore capacità futura di bambine e bambini di apprendere e, in alcuni anni, di guidare l’innovazione e di partecipare alla crescita del Paese; maggiore capacità di attrarre talenti da tutto il mondo; e, in ultimo, maggiori posti di lavoro ad elevato valore aggiunto. Nonostante tutto questo, in Italia abbiamo una copertura del territorio di strutture pubbliche per la prima infanzia tra le più basse del mondo sviluppato, con una distanza abissale tra Nord e Sud (Regioni come l’Emilia-Romagna, la Lombardia e la Toscana superano il 20% – che è comunque al di sotto degli obiettivi europei; la Campania è al 3%, la Calabria al 2%).
L’investimento in istruzione è imprescindibile e, si badi bene, è un investimento che va utilizzato per creare risultati e qualità, non semplicemente per aggiungere posti di lavoro.
La nostra scuola ha ancora grandi problemi che si trascinano da decenni: gli investimenti sono scarsi, e i risultati degli investimenti non sono misurati; la professione dei docenti non è correttamente valorizzata, il tempo pieno non è sufficientemente esteso. Con Next Generation Europe, abbiamo davanti una occasione irripetibile per ridurre i gap geografici e sociali fornendo competenze ai più vulnerabili, per esempio ai figli di famiglie disagiate e a rischio di abbandono scolastico, ai nuovi italiani, alle ragazze che non vengono indirizzate a carriere STEM anche se top performer. Bisogna, inoltre, puntare sulle nuove alfabetizzazioni (digital, soft skill, lingue straniere, etc.) e creare più occasioni di contatto tra impresa e scuola, ricerca e istruzione, scienza e cultura.
Investire in modelli di formazione adatti al nostro secolo
I nostri percorsi di formazione vedono ancora una forte distanza tra accademia e mondo della produzione. Per molti giovani, spiccare il salto tra la formazione scolastica e universitaria e il mondo del lavoro è ancora molto difficile, e riesce soltanto ai pochi che riescono ad accedere ad aziende e organizzazioni capaci di farsi carico in proprio di riempire i vuoti. È bene chiarire subito che i vuoti di cui stiamo parlando non sono vuoti di formazione esclusivamente “tecnica” o “industriale”, ma vuoti che riguardano sia le competenze orizzontali (gestione delle persone, di sé stessi, delle priorità, degli strumenti analitici generali) che quelle verticali (capacità di ottenere risultati in specifici dominii tecnici), ambedue parti integranti di un portafoglio di competenze “T-shaped” (come, tra gli altri, ha molto spesso spiegato con parecchia efficacia Alfonso Fuggetta, CEO di Cefriel e docente del Politecnico di Milano).
Un modello di ispirazione è quello tedesco che basa il successo del suo sistema produttivo anche nell’istituto del “Fraunhofer”, una rete di 72 istituti di ricerca applicata sparsi in tutto il territorio tedesco, con un finanziamento pubblico-privato (volto ad assicurare la piena osmosi tra ricerca e sua applicazione industriale). Sono questi i luoghi che permettono di arrestare o recuperare il fenomeno della dispersione scolastica, così accentuato in Italia. La proposta dell’Associazione M&M prevede un investimento massiccio nella creazione di “Fraunhofer dell’istruzione” con l’attivo coinvolgimento dei circa trenta poli pubblico-privati già operanti da tempo nel nostro Paese, con un forte collegamento alle università, e già inseriti nel programma di Digital Innovation Hub previsti dall’Unione Europea. La proposta prevede anche che ai poli pubblico-privati italiani, ricchi di esperienze, competenze, e di informazioni molto granulari sulle competenze richieste dal mondo produttivo italiano, sia affidato il compito cruciale di ristrutturare e digitalizzare i Centri per l’Impiego.
Investire nella partecipazione femminile al lavoro
Era il 1999 quando l’analista Kathy Matsui elaborò per Goldman Sachs la teoria della Womenomics. Matsui sosteneva che incentivare le donne a partecipare al mondo del lavoro avrebbe impresso una forza dirompente all’economia del suo Paese, che misurò in un +13% del Pil. Dopo più di venti anni, tuttavia, la questione femminile resta inspiegabilmente irrisolta, non solo in Giappone. Secondo l’agenzia europea Eurofund l’Italia è in Europa il Paese con il minor tasso di partecipazione femminile al lavoro: 54,4% (peggio di noi solo Malta) contro una media europea del 63,5% (prima della classe è la Svezia, con il 77,6%): una sotto-occupazione che costa al nostro Paese il 5,7% del Pil, mentre far partecipare al mondo del lavoro le donne produrrebbe nuova ricchezza per un valore pari all’11% del Pil. Le proposte di M&M includono una serie di misure che abilitino tutte le donne italiane a entrare molto più massicciamente nel mondo del lavoro; tra queste il congedo di paternità obbligatorio, facilitazioni specifiche per la frequenza degli asili nido e per il supporto alla gestione della famiglia, promozione massiccia di modelli culturali di leadership femminile, promozione delle materie STEM in età scolastica e orientamento sul mondo del lavoro in età scolastica.
Non è per essere politicamente corretti che dobbiamo fare tutto questo. Dobbiamo farlo per aumentare la ricchezza e il dinamismo del Paese, Next generation EU è forse l’ultima occasione che avremo per recuperare al mondo del lavoro le due grandi parti del Paese che ne sono escluse: i giovani, e le donne. È anche necessario che ci siano più donne nei luoghi di potere per rappresentare le esigenze delle altre donne. Per forzare un cambiamento culturale che riequilibri il peso dei doveri domestici e di assistenza e faciliti le carriere femminili. Perché le donne hanno più difficoltà degli uomini ad accedere al mondo del lavoro e del potere, nonostante abbiano pari competenze.
I dati italiani sono, diciamolo, agghiaccianti: l’Italia si colloca al 76esimo posto nell’indice generale, all’ultimo posto in Europa e al terzultimo nel mondo occidentale sul fronte della partecipazione economica (fanno peggio Corea e Giappone). È necessario aumentare il livello di istruzione e spingere sempre più ragazze verso le competenze richieste dalla quarta rivoluzione industriale per colmare il mismatching tra domanda e offerta di lavori digitali.
La digitalizzazione è cruciale ma è – in certa misura – una conseguenza
Da imprenditore del digitale, non mi sfugge certamente che anche in termini di digitalizzazione l’Italia si conferma tra i fanalini di coda dell’Europa: secondo l’indice Desi 2020 (Digital Economy and Society Index) elaborato dalla Commissione Europea, il Belpaese è venticinquesimo in Europa, una posizione migliore solo di Romania, Grecia e Bulgaria. A influire sull’indice sono il livello di connettività, di competenze digitali, l’uso di Internet da parte dei singoli, l’integrazione delle tecnologie digitali da parte delle imprese e dei servizi pubblici digitali. Ma se si osserva più a fondo si scopre che sul fronte delle infrastrutture ci collochiamo perfettamente nella media: siamo ultimi invece sul fronte delle competenze. E questo conferma anche la premessa da cui abbiamo avviato il discorso: per quando si investa in banda larga, in 5G, in reti e antenne, non si ottiene alcun significativo passo in avanti sul fronte dell’innovazione – o della digitalizzazione – senza aver valorizzato il capitale umano. Finora abbiamo curato i sintomi, senza occuparci della causa della malattia.
Con l’ultima Legge di Bilancio è stato investito un miliardo di euro nel Fondo Innovazione dedicato alle startup. Investimenti decisamente importanti che segnano l’evoluzione della mentalità quando si parla di imprese innovative. Oggi, con le risorse del Recovery Fund, dobbiamo però ripartire dalle basi, creare le condizioni perché l’humus del paese cambi in profondità, investire massicciamente per creare quella massa d’urto di donne, uomini, giovani dinamici, abilitati e attrezzati per generare l’innovazione e la crescita di cui abbiamo disperato bisogno. Ecco perché creare 100 asili nido ha una maggior ricaduta in termini di crescita e dinamismo che fondare 100 nuove imprese innovative. La strada, davvero, è ancora lunga, ma questi fondi straordinari potrebbero, se ben spesi, renderla meno ardua.
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