Articolo apparso sul numero di ottobre 2020 di Forbes. Abbonati
Le relazioni importanti, interessi nelle auto di lusso e nella finanza ma il suo mondo è lo sport. Giovanni Malagò lo guida dal 2013 dalla presidenza del Coni dove è giunto dopo un percorso manageriale che lo ha portato alla testa di importanti istituzioni sportive (come il Circolo Aniene di Roma), ma non solo. Tra le altre cose è stato commissario straordinario della Lega calcio di Serie A. In questo periodo sta combattendo la battaglia per una maggiore autonomia dello sport. Per lui parlano i risultati, due su tutti: il Comitato olimpico internazionale (Cio) lo ha nominato membro effettivo ed è riuscito a portare le Olimpiadi invernali a Milano e Cortina. Giovanni Malagò rappresenta la figura del manager sportivo per eccellenza.
Il massimo dirigente sportivo italiano ha cominciato praticando quale sport?
Ne ho praticati tanti, forse troppi. Ma quello che ho maggiormente praticato è il calcio a cinque dove ho giocato per tanti anni in Serie A. Ho vinto tre campionati italiani con la Roma Rcb e quattro Coppe Italia, di cui due con l’Aniene.
Come ha cominciato?
Per passione. Perché seguivo, leggevo, studiavo, avevo una quasi maniacale voglia di apprendere come funzionava l’organizzazione e cosa ruotava attorno al mondo dello sport. Poi ho fatto le prime esperienze attraverso le quali ho cercato di crearmi un curriculum e una mia credibilità soprattutto in un mondo così eterogeneo tra le varie discipline. Ovviamente un ruolo decisivo l’ha avuto il lavoro con la prima importante manifestazione che ho presieduto per celebrare i 50 anni della Ferrari, una casa automobilistica a cui siamo molto legati perché la mia famiglia da sempre la rappresenta come distribuzione, con la nostra concessionaria.
Quale è il modo più giusto per interpretare il ruolo di dirigente sportivo?
Ci sono due modi di interpretare il dirigente sportivo. Uno se lo fai a livello professionale, un altro se lo fai per spirito di volontario. Nel mio caso ho continuato sempre ad abbinare le due cose: continuare ad avere un ruolo nella vita civile insieme a quello di dirigente sportivo. Io non faccio di mestiere questo, e soprattutto attenzione: io non sono nominato ma sono votato che è la cosa più importante.
Lei, come disse allora, ha scalato una montagna quando fu eletto da outsider contro Raffaele Pagnozzi. Se ripensa a quei momenti cosa le viene in mente? E soprattutto in cima a quella montagna ha trovato quello che credeva di trovarci?
Ricordo tutta la fatica, l’impegno, il sacrificio. Tra l’altro è accaduto in un’epoca non molto lontana ma neanche troppo vicina. Nel frattempo infatti è cambiato molto. In cima alla montagna ho trovato qualcosa che mi aspettavo e anche qualcosa di più bello e gratificante, ma sicuramente anche qualcosa di meno edificante. Credo però che questo faccia parte dell’esperienza di vita delle persone.
Un incarico come quello di presidente del Coni richiede tempo ed energia. Quando e perché ha deciso di dedicarsi totalmente allo sport mettendo in secondo piano gli altri suoi interessi economici che pure sono rilevanti?
Quando uno diventa presidente del Coni, oggi, è impensabile che non si entri nell’ordine di idee di lavorare full time.
Cosa manca allo sport italiano?
L’elenco sarebbe corposo e magari soggetto a interpretazioni che ognuno di noi potrebbe dare. Quello di cui sicuramente c’è bisogno è la chiarezza che negli ultimi tempi è venuta a mancare per vicende note.
È soddisfatto dei risultati raggiunti finora?
Sotto il profilo dei risultati sì, penso che parlino da soli. Sotto il profilo sportivo credo che l’Italia abbia dimostrato di avere una credibilità quanto meno pari a quella che è stata la sua storia. L’assegnazione delle Olimpiadi e la gratificazione che il Cio mi ha voluto dare nominandomi membro effettivo, credo che siano la dimostrazione di tutto questo.
Tre caratteristiche che deve avere un dirigente sportivo?
Non c’è una formula precisa. Mi sento di dire competenza, passione e non anteporre l’interesse personale a quello collettivo.
Quale è stata la sua soddisfazione più grande?
L’ottenimento delle Olimpiadi Milano-Cortina.
E la delusione più grande?
Il ritiro di Roma nella gara per le Olimpiadi.
Lei è membro del Cio. Che tipo di esperienza ha portato all’estero e che cosa ha riportato invece in Italia?
L’Italia è un laboratorio, nel bene o nel male, di tante cose, lo è anche nello sport. Questa è un’esperienza che viene trasmessa. Nel mondo ci sono nazioni dove le cose sono molto più regolate e più efficienti però al tempo stesso, come succede anche in altri settori, chi è abituato a vivere la nostra realtà spesso ha qualcosa in più in termini di valore aggiunto rispetto ai miei colleghi.
Il prossimo traguardo dello sport italiano?
Riacquisire autonomia e indipendenza rispetto a normative che oggi hanno lasciato tutto sospeso. E poi promuovere più possibile la pratica nel Paese, continuando però a ottenere risultati di alto livello che sono i benchmark a livello internazionale.
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