Articolo tratto dal numero di gennaio 2022 di Forbes Italia. Abbonati!
In principio furono i russi. O meglio, i sovietici. Meglio ancora, gli scienziati reclutati dall’impero sovietico. Possiamo immaginarli bisbigliare come un mantra la parola tokamak. Come fosse un sortilegio, o l’ingrediente di una pozione magica. E in un certo senso lo era. In russo tokamak significa ‘camera toroidale con bobine magnetiche’. Grossomodo, una specie di forno reattore ad altissima temperatura in cui si genera il plasma. Lì, in quel gas bollente e altamente ionizzato, gli scienziati inseguivano la fonte suprema d’energia. Quella che alimenta le stelle dell’universo. Nucleare sì, ma senza (o quasi) scorie radioattive. Potentissima, inesauribile, affidabile. E pulita. Nessuna traccia del maledetto effetto serra. La fusione nucleare avrebbe potuto cambiare le sorti del mondo. E soprattutto della guerra fredda, pensavano i sovietici.
Fissione e fusione sono due parenti che, in realtà, si somigliano poco. Le centrali nucleari di oggi si basano sulla fissione, cioè prendono atomi grandi e instabili, solitamente di uranio, e li dividono in atomi più leggeri. L’energia così liberata può essere sfruttata per produrre elettricità. La fusione tenta di fare l’opposto: prende atomi piccoli e li combina per forgiare atomi più pesanti. I vantaggi: a differenza del carbone o del gas naturale, non rilascia anidride carbonica, quindi non riscalda il pianeta. Poi la fusione non è legata alla disponibilità di vento o di luce del sole. I suoi impianti, a differenza di turbine eoliche e pannelli solari, lavorano con qualsiasi meteo. Rispetto al parente, inoltre, generano molti meno rifiuti radioattivi.
Ora gli svantaggi. La fusione è difficile da avviare perché richiede condizioni estreme. La vera sfida, per gli ingegneri, è il plasma: uno stato particolare della materia che si trova nel nucleo del sole. Lì avviene la fusione: la maggior parte dei reattori mira a combinare nuclei di deuterio e trizio, due isotopi dell’idrogeno, che in natura però si respingono, perché hanno entrambi cariche elettriche positive. Convincere due atomi a unire le forze significa superare questa repulsione. Gli scienziati oggi ci riescono, e probabilmente ci riuscirono anche quei lontani precursori sovietici. Ma c’è bisogno di quantità immense d’energia.
Ed ecco il problema: finora i reattori non sono mai riusciti a produrne più di quanta ne consumino. Ecco il limite di questa tecnologia, ecco perché si è diffuso l’altro tipo di nucleare. Il più grande tentativo di fusione, del resto, va avanti nel sud della Francia da quasi quarant’anni. Un progetto finanziato da svariati paesi, tanto ambizioso quanto costoso e apparentemente inconcludente. Dovrebbe raggiungere l’energia netta positiva nel 2036, assemblando atomi in un enorme reattore tokamak. Ma il suo risultato più concreto, finora, è stato quello di aver sforato di decine di miliardi di euro il budget iniziale.
Questo articolo, se fosse stato scritto anche solo pochi mesi fa, sarebbe potuto terminare qui, magari con un’ultima frase a mo’ d’epitaffio: ‘Stuzzicò gli scienziati per decenni, restò inafferrabile’. Nell’ultimo periodo, però, le cose sono cambiate in modo sorprendente e repentino. Sarà stata la pandemia che ha dato una spinta alla transizione energetica, di cui oggi sono però sempre più tangibili i costi e visibili le incognite. C’è una citazione stranota di Gramsci che calza a pennello: “Il vecchio mondo sta morendo, ma quello nuovo tarda a comparire”. Nel senso che le rinnovabili (e altre fonti pulite), seppur cresciute moltissimo, sono ancora lontane dal garantire il nostro fabbisogno d’energia. Il sistema economico resta quindi dipendente dal fossile, in cui però si comincia a investire di meno. Ed è esattamente così che l’Europa si è trovata esposta alla volatilità nell’approvvigionamento di gas naturale, il cui prezzo è a livelli record perché tutti ne hanno bisogno. Questo combustibile è considerato nell’industria come una sorta di ‘ponte’ utile a gestire il passaggio dagli idrocarburi all’energia verde, tipo eolico e solare. Un’attività con una data di scadenza non a lunghissimo termine, cosa che ultimamente si è tradotta in investimenti non adeguati a soddisfare la domanda. Lo dimostra anche il fatto che gli stock nazionali di gas in Europa sono diminuiti del 30% negli ultimi dieci anni.
Lo stesso meccanismo si sta verificando in Cina. Cambia solo il combustibile, in questo caso il carbone. La Cina lo usa ancora moltissimo per l’elettricità, ma allo stesso tempo sta cercando di ripulire la propria economia, accelerando con le rinnovabili e tagliando fonti sporche. È stato lo stesso Xi Jinping, in primavera, a imporre un giro di vite sul carbone. La produzione è rallentata, le scorte sono diminuite, ma tutto ciò è successo mentre nel Paese cresceva il consumo d’energia. Risultato: prezzo del carbone alle stelle e, per la Cina, una delle più gravi crisi energetiche da decenni a questa parte. Blackout nelle fabbriche, strade piombate nel buio, famiglie illuminate da cellulari e candele. La leadership politica ha cominciato a tenere una serie di riunioni d’emergenza dalla fine di settembre. Il rimedio è parso subito inevitabile: una risoluta inversione a U. Il governo ha così ordinato alle miniere di sfornare carbone a pieno regime. La crisi è rientrata, con buona pace di effetto serra e lotta all’inquinamento.
Ma ora torniamo all’Europa. Anche nel nostro continente si potrebbe essere tentati di ripiegare sul buon vecchio carbone, da cui qualche secolo fa è partita la rivoluzione industriale. Fortunatamente c’è un ostacolo: la cosiddetta ‘carbon tax’. Produrre anidride carbonica in Europa è diventato più caro, grazie a un sistema di scambio di quote di emissione, e ciò rende meno conveniente il passaggio a fonti di elettricità più sporche.
Ma resta il problema di come alimentare il sistema economico. Ci vuole energia pulita, ma deve essere anche tanta e affidabile. Ed è qui che si sta creando una frattura nell’Unione europea. Dieci stati membri (con in testa la Francia) si sono schierati a favore del nucleare e vogliono inserirlo tra le fonti pulite, “perché protegge consumatori e industria dalla volatilità dei prezzi”. Il fronte dei contrari è capitanato dalla Germania.
In realtà anche Macron, il presidente francese, aveva detto all’inizio del suo mandato di voler usare meno nucleare. La fiammata dei costi dell’energia deve avergli fatto cambiare idea. Ma quello francese, assicura Macron, sarà un nucleare diverso. L’obiettivo è costruire una mezza dozzina di piccoli reattori modulari. Un tipo di impianto nuovo che svariati Paesi considerano utile per facilitare la transizione ecologica. Dalla sua ha costi unitari più bassi, e ciò lo rende sostenibile come investimento in tempi più brevi. L’altro vantaggio è che produce pochissimo gas serra, ma questa è una caratteristica nota del nucleare. Il vero problema è che ancora non scioglie del tutto il nodo dei rifiuti radioattivi. Ed ecco che torniamo al derby nucleare: fusione vs. fissione. Non sarà che il parente meno quotato alla fine trova il modo di spuntarla?
Dicevamo che negli ultimi mesi le cose sono molto cambiate. Una serie di scoperte ha galvanizzato gli scienziati ed entusiasmato gli investitori. I finanziamenti non sono più soltanto pubblici, anche i privati partecipano alla corsa. Come se la fusione, dopo un’adolescenza difficile, fosse entrata a sorpresa in una promettente età adulta. Nessuno dubitava che fosse possibile in linea di principio. Ma restava una specie di miraggio. Lo diceva anche un proverbio ripetuto fino alla noia tra gli addetti ai lavori: “La fusione è lontana trent’anni e sempre lo sarà”. Adesso qualcosa si intravede. Qualcosa di concreto, che sembra trovarsi più vicino della classica linea dell’orizzonte.
Innanzitutto c’è l’interesse di grandi nomi e società private che investono di routine in tecnologia di frontiera per mitigare il cambiamento climatico. La startup americana Commonwealth Fusion Systems – sede in Massachusetts – ha appena raccolto più di un miliardo e 800 milioni di dollari, la più grande iniezione di capitale privato in un progetto di fusione nucleare. I fondi sono arrivati anche da Google, Bill Gates, George Soros, Marc Benioff (ceo del gigante del cloud Salesforce) e da Dfj Growth, una società di venture capital della Silicon Valley. Il principale azionista resta comunque l’italiana Eni, che sostiene la startup dalla nascita, nel 2018.
Eni ci ha creduto fin dall’inizio, ma la vera svolta è giunta a settembre 2021. Quel mese, nei laboratori di Commonwealth Fusion Systems (d’ora in poi Cfs), è stato acceso un superconduttore ad alta temperatura capace di generare un campo magnetico molto più forte di un tokamak tradizionale. Secondo gli ingegneri di Cfs, questa innovazione consentirà di realizzare una macchina per la fusione più efficiente, più piccola, più economica. In sostanza, più adatta a stare sul mercato, cioè a essere sfruttabile come fonte d’energia commerciale. Il prossimo obiettivo di Cfs è fissato per il 2025. Per quella data, la startup vuole finire di costruire un impianto chiamato Sparc, grande la metà di un campo da tennis, e finalmente in grado di raggiungere l’agognata “energia netta positiva”: in altre parole, produrre più energia di quanta ne consumi. La mossa successiva sarà aprire la prima centrale elettrica commerciale alimentata da fusione nucleare. Questo avverrà, se tutto filerà liscio, nel corso degli anni ’30.
Ma quello di Cfs non è uno sprint solitario. La startup è tallonata da una serie di rivali. C’è Helion Energy, che ha sede nello stato di Washington, che ha raccolto da poco 500 milioni di dollari e dice di poter accedere a una tranche ulteriore (pari a 1 miliardo e 700 milioni di dollari) se raggiungerà certi obiettivi fissati dagli investitori. Le basi sembrano ottime. Quest’estate Helion è riuscita a portare il plasma a 100 milioni di gradi Celsius, temperatura che i suoi ingegneri considerano ideale per la fusione. La produzione di energia netta positiva, invece, dovrebbe essere raggiunta nel 2024, quindi un anno prima di Cfs.
Un’altra concorrente è la canadese General Fusion. Ha appena ottenuto un’iniezione di 130 milioni di dollari (tra gli investitori c’è anche Jeff Bezos), ma con la promessa di un finanziamento parecchio più consistente nel 2022. Poi c’è la californiana Tae Technologies, che l’anno scorso si è messa in cassa 410 milioni di dollari in due round di raccolta fondi. Uno dei player più recenti è Zap Energy, nata a Seattle, a cui sono stati versati 27,5 milioni di dollari a maggio 2021.
Questa pioggia improvvisa di denaro è straordinaria, fa sapere l’Autorità per l’energia atomica del Regno Unito. Eclissa i finanziamenti ottenuti fino a oggi e dà la misura di quanto entusiasmo circoli nel settore. Oggi, nel mondo, ci sono una quarantina di società di fusione nucleare, basate soprattutto negli Stati Uniti. Ma non sono forse troppe? E un’altra domanda sorge spontanea: ha davvero senso tutto questo rinnovato fervore?
Una voce scettica è quella di Daniel Jassby, fisico della università di Princeton. Jassby definisce “vera e propria smania da fusione” la recente tendenza di investimenti privati. Il professore fa notare giustamente che ancora nessuno è riuscito a ottenere elettricità da questa tecnologia. Dietro il moltissimo fumo potrebbe nascondersi un arrosto scarso. C’è spesso, secondo Jassby, un atteggiamento fake it ‘till you make it (letteralmente: “Fingi finché non ci riesci”). Anche Tony Donné, dirigente di Eurofusion, un consorzio di ricerca di 28 Paesi, si mostra piuttosto cauto. Gli piace l’approccio delle aziende private, ne ammira l’intraprendenza, ma crede anche che, per convogliare l’energia da fusione nucleare nelle reti elettriche nazionali, ci vorranno dai 20 ai 30 anni. Donné è comunque convinto che valga assolutamente la pena provarci. Anche perché il mondo ha un bisogno quasi disperato di nuove fonti d’energia. E il nucleare da fusione, senza scorie né rischio di incidenti, potrebbe essere determinante.
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